Era facile rimanere delusi al termine del recente concerto a Milano dei Jane’s Addiction: un’ora e mezza che ha dato l’idea di un compitino ben fatto ma senza sforzi in più, un Navarro ineccepibile tecnicamente ma poco partecipe, un Perry Farrell sottotono sia vocalmente sia come presenza sul palco (stereotipate battute sullo shopping a Milano e sulla pizza italiana) e una generale atmosfera da baraccone circense, composto da ballerine desnude e un po’ consumate dal tempo, con coreografie solo apparentemente trasgressive e al limite invece della triste comicità.
Poi passano i giorni e penso invece a ciò che ho visto e soprattutto sentito: la riproposizione integrale di “Ritual de lo habitual” con canzoni che incredibilmente, oltre ad aver dettato prima del grunge le linee del rock alternativo, ancora oggi risultano attuali, vive e insuperabili nella loro forza evocativa.
E allora via con le schitarrate di Navarro su “Stop!”, “No One’s Leaving” e “Ain’t No Right”, non supportate da una qualità di suono ottimale, per migliorare finalmente con “Obvious” e la celeberrima “Been Caught Stealing” che infiamma definitivamente i presenti.
Si passa alla seconda parte del disco, la mia preferita, un mondo completamente diverso e venato di psichedelia: la lunga cavalcata di “Three Days”, l’emozione della splendida “Then She Did…” dedicata alla madre suicida di Farrell, le atmosfere tzigane di “Of Course” e la ballata “Classic Girl”. Navarro è sì freddo ma non sbaglia una nota, e che note ragazzi, ed è così unico e imitato che ci risenti dentro il suo stile tutti i cloni sono venuti dopo di lui (che sbaglio i Red Hot ad abbandonarlo!). Perkins è un batterista altrettanto unico e il più in forma della serata, ben supportato dell’ormai permanente sostituto di Avery, Chris Chaney, a riproporre quelle linee di basso ipnotiche e debitrici del miglior Peter Hook.
Dopo un omaggio a Bowie con una convenzionale e trascurabile “Rebel Rebel” si passa a una granitica “Mountain Song”, all’unica concessione alle recenti produzioni “Just Because” e su “Ted, Just Admit it..” l’unica performance davvero disturbante e in stile Jane con due performer letteralmente appese con i loro piercing a dei cavi, volteggiando sulle urla di “Sex is violent” (una ragazza di fronte a me è svenuta).
Non poteva che finire con il loro inno “Jane Says” e tutto il pubblico in delirio a cantarlo con loro.
Cosa rimane quindi? Potevo aspettarmi di vedere la trasgressione e lo “stato confusionale” dei primi anni 90, l’Alternative Nation senza un domani, quando ciascuno di noi crescendo, necessariamente non può più essere quello di prima come un eterno adolescente? Le mie aspettative erano sbagliate e ingiuste, vederli oggi significa accettare che il rock sopravviva perché non ripropone sempre e solo i propri clichè di “sex, drugs and death” ma anche perché ci sia qualcuno, come i Jane, a ricordarci e soprattutto suonarci ancora le canzoni che hanno fatto la storia non solo della musica ma di parte della nostra vita. E questo basta e avanza.
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