Ogni volta che ci penso mi vien male.

Jang Sun-Woo era uno dei registi coreani più liberi, anarchici e profondi degli anni '90 (memorabile il suo esordio "Seoul Jesus", dove il Nuovo Testamento viene messo in scena in una Seoul decadente, tra spacciatori e prostitute), che nel 2002 si ritrovò dietro la macchina da presa per uno dei film coreani più costosi di sempre: "Resurrection", un filmaccio-carrozzone di fantascienza che gli avrebbe concesso di pagarsi il mutuo e di dedicarsi a progetti più personali. D'altronde, come può non far cassa un film con sparatorie, esplosioni e effetti speciali come se piovessero? Come può non avere appeal sul grande pubblico (almeno quello locale) un film del proprio territorio con un budget pari a quello di Matrix e diretto al massimo intrattenimento?
La produzione e lo stesso Jang Sun-Woo ne erano convinti. Invece no: il film è stato un terribile fallimento. Anche in patria, non lo guardò nessuno. La critica lo stroncò senza mezze misure e il film uscì anche da noi, ma passò completamente inosservato. Da quel momento il folle regista sparì dalla circolazione e da undici anni non lavora a nessun progetto.
Poco prima, però, nel 1999, Jang presentò al Festival Di Venezia un'opera straordinaria e sbeffeggiata: "Lies" (uscito anche in Italia con il titolo "Bugie", ma solo in VHS - se cercate bene, però, troverete una rara versione doppiata nella nostra lingua).

Un film che è controverso anche oggi, che guardandolo sferra ancora pugni violentissimi e lascia inebetiti.
Ma cos'è Lies? Stiamo parlando di un film tratto dal romanzo di uno scrittore coreano incarcerato per oltraggio al pudore che racconta la tenera relazione che nasce tra una ragazzina di diciotto anni (e in Corea NON è maggiore età) e un artista in crisi coniugale quarantenne.

Scusa ma ti chiamo amore? MA PER FAVORE.
"Lies" scioccò l'intero pubblico di Venezia con una spontaneità a dir poco impressionante. Perché no, non è un film romantico. Non è neanche provocazione spicciola. Ciò che veramente sconvolse la massa, al di là dell'estrema ed esplicita natura visiva del film stesso, è la disperazione che pregna questi 90 minuti maledetti.
Non c'è amore, non c'è sentimento in questa storia proibita. Ciò che lega i due personaggi non è neanche il sesso: è la disperazione. Disperazione di trovare un contatto umano dove è impossibile trovarlo. La disperazione che unisce due personaggi che si trovano davanti a quell'abisso che è la comunicazione: una ragazzina con la smania di provare le prime esperienze e un uomo che ha visto della propria vita un fallimento colossale. 

Meglio chiarirlo subito: "Lies" non è un film all'acqua di rose. "Lies" è animalesco, selvaggio, marcio dentro. Se non si inizia la visione preparati, allora è impossibile apprezzarlo. Stiamo parlando di un film meravigliosamente complesso, dove si incastra una moltitudine di temi profondi, attuali, terribilmente deprimenti.
I personaggi NON sono esseri umani. Sono pedine, fantocci e come tali non hanno neanche un nome proprio (tra loro si chiamano con delle iniziali: J e Y) che, nella tragedia della propria esistenza, cercano nel modo in sbagliato qualcosa per cui valga la pena vivere. Il loro agire malato, grottesco è una deviata educazione al sesso: la loro ricerca va oltre l'umano, oltre lo scibile, dove carezze e baci non significano più nulla perché ormai hanno già detto tutto. 

Masochismo? Sadomasochismo? Il film mostra questo, ma NON parla di questo: è una parabola discendente dell'essere umano, dell'anima. Nulla è in scena come erotismo, nulla è credibile perché non deve esserlo. Le vite di "Lies" sono grottesche, surreali, incredibili: diventano nichilismo puro, dove risiede un rifiuto totale della crescita, della scoperta, dell'emozione. Si viene a creare un luogo dove il senso della vita risiede nella possessione di un corpo, tradotto in un estenuante rituale di rassegna dei luoghi della carne(e chi vedrà il film potrà capire di cosa sto parlando) come se fosse una gara, una conquista. Gara dove, però, sembra che non esistano vincitori. E quindi si continua ad andare oltre, sempre di più, fino alla distruzione. 
Si cerca il tangibile senza mai trovarlo e, inesorabilmente, si fallisce.
Si vuole essere più degli altri, meglio degli altri che non sono in grado di comprendere. 

Il tutto corredato da una regia affannosa, soffocante, che non lascia respiro né allo spettatore e né ai protagonisti. Jang Sun-Woo inscena un meraviglioso gioco di metacinema, dando significato al titolo stesso. "Bugie" non sono solo quelle che il marito racconta alla moglie, ma anche quello che Jang Sun-Woo racconta allo spettatore.
Scena emblematica è quando l'attrice viene inquadrata mentre cammina di notte. Si ferma e scoppia in un pianto fragoroso. E allora tutto si ferma: Jang Sun-Woo e la sua troupe appaiono davanti all'obiettivo e la consolano. Sta piangendo non in quanto personaggio, ma in quanto corpo dell'attore: la scena che ha appena girato è stata troppo forte e degradante. 

In quel momento chiave decade tutta la funzione del film per entrarne in un'altra: a volte non è solo il cinema ad essere bugia, ma la vita stessa. Bugie che i personaggi raccontano a sé stessi pur di continuare a vivere, bugie nel rapportarsi con gli altri (la ragazza che racconta all'amica del cuore quello che sta facendo come se fosse un vanto, una cosa trasgressiva, quando in realtà ne soffre). 

Sotto la superficie di film "maledetto", si inscena quella del capolavoro. Un film complesso, estremamente destabilizzante e furioso. Talmente disperato e sporco che la prima volta che l'ho visto, molti anni fa, non ci ho dormito la notte. Ora rientra nei miei film da isola deserta.

Un capolavoro che, però, non è assolutamente consigliabile a nessuno.
Decidete voi se volete approcciarvici o meno. 
Io non mi assumo questa responsabilità. 

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