Questo disco rappresenta per molti uno dei capitoli principali della Bibbia della chitarra shred, cioè di quel particolare modo di rapportarsi alla sei corde, diffusosi intorno ai primi anni ’80, che faceva letteralmente “a pezzi” quelli che erano i riferimenti tecnico/stilistici dei chitarristi degli anni precedenti (vedi Blackmore, Page, etc.). Quest’album rappresenta una specie di manifesto esemplificatore dei principi, già introdotti precedentemente da chitarristi noti come Malmsteen, Satriani o Steve Vai, che animavano i chitarristi shredders dell’epoca: spingere nel heavy-rock il dualismo uomo-chitarra elettrica oltre l’inverosimile, mantenendo però integro l’amore per lo strumento e la creatività.

Qualsiasi chitarrista che faccia un disco puramente basato sui funambolismi tecnici porterebbe l’ascoltatore a spegnere il riproduttore dopo due minuti dato l'inascoltabilità del brano. Fortunatamente esistono chitarristi che all’incredibile capacità tecnica riescono ad aggiungere una buona dose di immaginazione, gusto personale e melodia. Tra questi c’è senz’altro il Jason Becker di questo splendido gioiello di album: il suo tocco, il bending, i trilli, gli slide, i vibrati e tutti gli effetti di ogni brano servono come espressione di una musica sublime che, generata dal suo cuore, affluisce in presa diretta allo strumento attraverso le sue dita. Non c’è un singolo pezzo dove non possa essere riscontrato l’auto-compiacimento dell’autore nell’esercizio ipertecnico e l'emozione che esso ci vuol dare. Tutte le progressioni, la velocità di esecuzione e le incredibili tecniche utilizzate sulla chitarra hanno una loro ragion d’essere, sono parte integrante dell’armonia generale del pezzo. Basta ascoltare brani come "Altitudes" o "Opus Pocus", dove si percepisce l’amore dell’autore per le strutture melodiche tipiche della musica orientale, per capire cosa intendo; fino ad arrivare agli incredibili sei minuti semi-acustici della melanconica e riflessiva, ma allo stesso tempo struggente, "Air". Non mancano i momenti più aggressivi come nella title-track, in "Dweller In The Cellar", in "Temple Of The Absurd" dove tra sweep-picking, soli armonizzati e sventagliate di pentatoniche la chitarra di Becker sembra quasi urlare tutta la sua rabbia. Proprio di questi due ultimi pezzi e di "Eleven Blue Egyptians", brano che presenta ispirate intrusioni nel blues, è ospite e co-autore delle songs l’amico fedele Marty Friedman; egli con Jason (quando questi aveva solo 17 anni!), sotto il fulgido nome di Cacophony, aveva inciso l’anno precedente un lavoro dal titolo “Speed Metal Symphony” che aveva già sconvolto la comunità dei virtuosi di tecnica chitarristica.

La storia di Jason Becker, come molti sanno, non è stata in seguito certo fortunata. Sembrava avere, così giovane, il mondo della chitarra già ai suoi piedi. Aveva appena sostituito Steve Vai nella David Lee-Roth band e si apprestava a terminare le sessions di registrazione dell’album “A Little Ain’t Enough”, quando all’improvviso la sua mano sinistra cominciò a scivolare dal manico della chitarra e gli fu fatta la terribile diagnosi di Sclerosi Laterale Amiotrofica, malattia nota al grande pubblico semplicemente col nome di Morbo di Lou Gehrig. Gli furono prognosticati un paio di anni di vita al massimo. Lui, dopo quasi quindici anni, è ancora lì a scrivere musica per chitarra con la sua creatività immensa e smisurata, anche se ovviamente non può più suonarla. “Perpetual Burn” rappresenta quindi una specie di testamento chitarristico per il mondo, in cui Jason lascia le sue volontà circa il modo in cui dovrebbe essere suonata una chitarra elettrica ancor oggi, cioè con cuore e cervello, ossia con sentimento e tecnica. Assolutamente il miglior disco di chitarra degli ultimi tempi, ciò che lo contraddistingue dagli altri dischi del genere è la capacita di suscitare emozioni e non di limitarsi alla sola tecnica che non ti dice niente.
A mio modesto parere penso che Jason Becker sarebbe stato il miglior chitarrista degli ultimi decenni, vi invito a visionare un bel po' di video fatti da egli stesso quando aveva non più di 17 anni, dove esegue pezzi di incredibile tecnica e audacia, pezzi di autori che già in quel momento erano giudicati come i migliori al mondo. Penso non ci sia altro da dire per manifestare il mio grande rammarico per aver perso uno dei più grandi giovani chitarristi di tutti i tempi. GRAZIE JASON!

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