Non ci credeva nessuno, o almeno ci credevano in pochi. L'annuncio del ritiro dalle scene da parte di Jay-Z aveva stupito il grande pubblico e chi lo conosceva solo di fama, ma i critici e i suoi estimatori sapevano con chi avevano a che fare, e sapevano che il periodo del "ritiro" non sarebbe stato lungo più di 5 anni. E infatti eccomi qui a recensire il suo nuovo album, uscito a distanza di tre anni dall'ultimo "The Black Album". Si può dire che Jay-Z si sia preso una vacanza lavorativa, visto che dopo il "ritiro" ha realizzato un documentario sulla sua carriera (Fade to Black), ha collaborato con i Linkin Park nello smash-up "Collision Course", con R. Kelly in "Unfinished Business" e con molti altri artisti (Kanye West, Lupe Fiasco e Beyoncè, per citarne alcuni) nei loro album.
In molti pensavano che questa "assenza" dagli studi di registrazione avrebbe portato ad un disco diverso dalla discografia precedente, più maturo o innovativo, e invece si può dire che non è cambiato molto: ascoltati i primi tre brani sembra che Jay-Z non si sia mai ritirato. I beat sono aggressivi come sempre, e i testi sono auto-celebrativi come sempre (''Lunch with Mandela, dinner with Cavalli/Still got time to give water to everybody'', da "Oh My God"). Andando avanti nell'ascolto qualcosa di nuovo c'è, ma si esemplifica solo nelle varie collaborazioni dell'album, con artisti Pop (Chris Martin, anche in produzione in Beach Chair) e R&B (Beyoncè, John Legend, Usher e Ne-Yo).
In "30 Something" Jay-Z ci dice che sta invecchiando, che è maturato ma che comunque non ha niente da dimostrare o da imparare dai nuovi astri nascenti del rap americano. "I trenta sono i nuovi venti". E' quindi questo lo slogan, citato più volte nell'album, così come più volte il rapper si paragona a Michael Jordan, associando il suo Kingdom Come (titolo che si ispira ad una serie di fumetti in cui Superman ritorna dopo un auto-esilio in un mondo caotico) al ritorno nell'NBA (nei Washington Wizards, per la precisione) di MJ.
I temi trattati sono vari, si passa dall'uragano Katrina in "Minority Report" (che contiene vari samples di interviste e testimonianze della tragedia, tra cui il famoso attacco di Kanye West "George Bush does't care about black people") ad un tributo alla madre in "I Made It", e le collaborazioni, come detto, sono altrettanto varie, ma non convincono appieno. Gli unici a lasciare il segno sono John Legend in "Do U Wanna Ride" e Ne-Yo in "Minority Report", mentre gli altri sono quasi risucchiati dal vortice dei beat e soprattutto dal flow di Jay-Z, trascinante come sempre.
Un discorso a parte merita la collaborazione con Chris Martin in "Beach Chair", canzone molto evocativa avente come oggetto un ipotetico sogno di Jay-Z, perchè trattasi di canzone che poco ha a che fare con l'hip-hop: il che porta ad odiarla o ad amarla, a seconda dei gusti. Personalmente non mi dispiace, ma l'avrei vista meglio in un album dei Coldplay con Jay-Z come guest.
In definitiva ci troviamo di fronte ad un album che non va a posizionarsi tra i lavori meglio riusciti di Jay-Z, ma che rimane un'ottima scelta per gli amanti del genere: Jay-Z non ha perso né il suo carisma né il suo stile, e questo è il miglior biglietto da visita che l'album possa avere.
Carico i commenti... con calma