Le mille traversie post-produttive ne fanno uno dei film più sfortunati della storia del cinema.

Uscito nel 1939, alla vigilia della guerra, non ebbe praticamente successo; fu in seguito tagliato – riducendo la durata da 113 minuti a 85 – e poi ritirato dalla distribuzione; la censura tedesca ne proibì la proiezione durante gli anni dell'occupazione; il negativo finì addirittura distrutto durante un bombardamento.

La fortuna de La regola del gioco cominciò tardivamente, vent'anni dopo la sua uscita, quando alcuni restauratori guidati e consigliati dallo stesso Renoir riuscirono a ricostruire una versione fedele, nei limiti del possibile, a quella originale. Questa versione, proiettata al festival di Venezia del 1959, portò finalmente l'opera alla ribalta, decretandone il successo soprattutto presso i giovani critici e registi della nascente Nouvelle Vague.

La regola del gioco divenne un caposaldo, un'opera di culto e di riferimento.

Rivisto oggi, ormai classico indiscusso, La regola del gioco appare non solo un capolavoro a tutti gli effetti, ma anche e soprattutto un film di straordinaria modernità. Un film seminale come pochi, ma invecchiato benissimo, fonte d'ispirazione per un'enorme fetta di cinema successivo che poco o nulla ha aggiunto alle qualità e alle intuizioni dell'originale. Le grandi commedie corali, gli affreschi di costume, le rappresentazioni umoristiche e crudeli di una società o di una classe sociale e tutti gli Altman del cinema provengono da qua, da questo piccolo e inizialmente bistrattato “dramma allegro” scritto e diretto da Jean Renoir. 

La modernità appare tanto più incredibile se si considera quanto classici, addirittura “archeologici”, fossero i riferimenti che avevano ispirato il regista: soprattutto nomi della tradizione letteraria francese del Settecento e dell'Ottocento, come Beaumarchais, De Musset, Marivaux, Feydeau, Labiche. E' il grande, affascinante paradosso della Regola del gioco: il film d'anteguerra più moderno, per sensibilità e forma, del cinema francese, nelle intenzioni non voleva essere altro che un divertissement, una rielaborazione filmica di motivi teatrali e letterari vecchi quanto la tradizione.

E infatti, la giostra di amori e tradimenti messa in moto da questi personaggi è pura pochade trattata con i ritmi concitati del vaudeville. L'ambientazione è la tenuta di campagna del marchese Chesnaye, che ha invitato svariati ospiti per una tenuta di caccia. Al centro della giostra c'è Christine, la moglie del marchese, che è amata dall'aviatore Andrè e, in segreto, dal vecchio amico Octave. Il marchese a sua volta ha un'amante, Geneviève.

Come in un gioco di specchi, la servitù vive analoghi intrighi sentimentali: al centro qui c'è Lisette, la cameriera personale di Christine, sposata con il guardiacaccia alsaziano Schumacher e desiderata dal nuovo domestico Marceau. La “separazione” dei personaggi in due sistemi distinti secondo la posizione sociale (le classi alte e quelle basse) è puro Shakespeare, pura tradizione. Ma i due piani avranno un inaspettato punto di contatto nel finale tragico, quando un omicidio sconvolgerà – momentaneamente – il meccanismo degli inganni e delle ipocrisie.

Perché, a dispetto dei riferimenti culturali tanto “tradizionali” che ne costituiscono l'ispirazione, La regola del gioco è un film tanto moderno? Perché ci descrive un mondo fatto di convenzioni, di riferimenti, di valori ormai destinati al crepuscolo (la Seconda Guerra Mondiale stava cominciando), con la crudeltà e insieme la nostalgia di chi è perfettamente consapevole della loro fine. Non sono tanto i pochissimi riferimenti storici “diretti” ad essere significativi – anche se è degno di nota che sia un personaggio come Schumacher, alsaziano con la mania dell'ordine e della disciplina di cui tutti si ostinano a francesizzare il nome in Sciumascièr, il vero detonatore della tragedia finale – quanto il “quadro” d'insieme.

Questi ricchi borghesi e aristocratici che si agitano e si inseguono nella loro giostra di intrighi sentimentali mantenendo sempre il sorriso sulle labbra e ostentando buone maniere con ipocrita aderenza al ruolo (perché questo impongono le regole del gioco) sono figurine di un vecchio mondo per cui Renoir ha allestito un ultimo, sepolcrale vaudeville. Essi non sono altro, a loro modo, che pupazzi, marionette, oggetti meccanici identici a quelli che colleziona il marchese e su cui la macchina da presa indugia con insistenza.

Di fatto, nemmeno l'incombere della tragedia – l'omicidio finale – riesce davvero a scompaginare gli equilibri. Il padrone di casa tiene un discorsetto di circostanza, tutti rientrano in buon ordine nella villa, il gioco può ricominciare. Ma non è una pacificazione, bensì un rifiuto ostinato della realtà che ha il sapore della sconfitta e in definitiva della morte. E gli unici personaggi a sfuggire a questo destino non saranno le donne come Christine e Lisette – che dopo qualche tentativo di trovare una propria individualità, finiscono per tornare a rivestire i loro ruoli sociali – ma probabilmente gli “esclusi”, come l'Octave, non a caso interpretato dallo stesso Jean Renoir, che si professa amaramente “un fallito, un buono a nulla, un parassita”.

Quella compiuta dal regista è una rappresentazione critica, non un'irrisione. Nel suo sguardo non c'è il compiacimento del cinico; ci sono semmai l'asciutta crudeltà di chi guarda la realtà senza farsi troppe illusioni; e la nostalgia, in fondo l'affetto, per un mondo dal quale proviene lui stesso. Con tutti i loro limiti e le loro ipocrisie, queste figurine così meravigliosamente delineate non ci ispirano mai disprezzo. Anche il personaggio del marchese ipocrita e fedifrago, che pure dovrebbe essere il rappresentante perfetto dell'aristocrazia debosciata, ci appare debole, simpatico, mai davvero spregevole. 

Certamente questo splendido affresco non avrebbe mai avuto la forza che ha se non fosse stata sorretta da una messinscena tanto abile e raffinata, a sua volta di una modernità strabiliante. Due anni prima di Quarto potere, Renoir fa già uso della profondità di campo oltre che di piani sequenza vertiginosi, rivoluzionando la tecnica cinematografica senza la platealità di Welles ma in maniera più sotterranea e sottile

Il risultato è una narrazione di eccezionale scioltezza, con la macchina da presa che si sofferma su un gruppo di personaggi, poi si stacca, attraversa la stanza, si sofferma su altri personaggi e così via, «trasformando –, parole di Jacques Lourcelles, – una scenografia teatrale in un insieme di spazi dove sfila, come una mascherata, tutta una società». Forma e contenuto si saldano in un'armonia insuperabile, la fluidità della messa in scena riproduce la fluidità dei sentimenti e dei rapporti umani. Anche per questo La regola del gioco è un capolavoro e un film di prodigiosa modernità, anche per questo merita di essere visto e rivisto ancora oggi.

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