Arriva quasi sempre nella carriera di un musicista professionista che fa parte di un gruppo affermato e universalmente apprezzato, la voglia, l’ambizione, la curiosità di intraprendere un percorso leggermente diverso, direi più intimo, che abbia un sapore proprio pur mantenendo comunque dei punti di contatto con il progetto “madre”.
Jeff Ament (Havre, Montana, 10 marzo 1963), bassista e co-fondatore dei Pearl Jam è l’ultimo in ordine di tempo dei componenti del gruppo di Seattle, dopo i lavori di Stone Gossard (“Bayleaf”, 2001) e Eddie Vedder (“Into the wild”, 2007) ad aver tentato una sortita solista, con il suo “Tone”, distribuito in 3000 copie nei negozi indipendenti americani e attraverso un mini-sito dedicato all’interno del sito del gruppo madre. Menzione particolare per l’artwork del disco, progettato dallo stesso Ament, che mi ricorda quanto sia bello avere dischi originali, sentirne il profumo e apprezzare l’opera di un musicista che si cimenta con successo anche in campo artistico. Il disco è composto da 10 brani, scritti e arrangiati nel corso degli anni (a partire dal 2000) dallo stesso Ament (probabilmente per i Pearl Jam), che suona tutti gli strumenti (tranne la batteria, curata da Richard Stuverud, amico di vecchia data) e si cimenta anche al canto (tranne che in “Doubting Thomasina”, interpretata da Dug Pinnick, voce dei King’ X).
Per quanto risulti sempre arduo provare a spiegare, raccontare, recensire un disco (credo infatti che solo l’autore di un disco possa riuscire a parlarne senza il rischio di raccontare stupidità o senza correre il rischio di cadere in facili atteggiamenti da cattedratico della musica) proverò a raccontarvelo.
Innanzitutto, mi sono concentrato sulla necessità di sgombrare il cervello e dimenticare che si tratti del bassista dei Pearl Jam, onde evitare paragoni. Fatto ciò, e messo su il cd, la prima sensazione che sembra trasparire è l’assoluta onestà del lavoro: la sensazione cioè di un ragazzo che si diverte a suonare e a far ascoltare le sue idee in musica, accompagnato da più che validi musicisti. Questa è “Just like that”: chitarra, basso e batteria disegnano un riff carino e orecchiabile, che dura il giusto, senza annoiare, con non invadenti e limitati interventi di feedback (per chi suona, è il classico riff che porta a chiederti: “e ora, come ne esco vivo? Come lo sviluppo?”). Si muovono su questo territorio fatto di marcata attitudine “punk” (il virgolettato ha un suo perché), anche “Give me a reason” e “The forest”, mentre nella terza (“Bulldozer”) il riff portante è quello che sarà il ritornello di “Severed hand” (contenuto in “Pearl Jam”, 2006).
Il pezzo probabilmente meno accessibile e facile è “Relapse”, con l’inciso in semi-growl… una cosa che mi ha spiazzato ma che probabilmente dona al pezzo un colore particolare, non avendo una struttura organica, sembrando vivere di spunti che forse faticano un po’ ad omogeneizzarsi: è uno di quei pezzi che necessitano probabilmente di più ascolti per esser recepito.
Ament non disdegna di cimentarsi in virate acustiche decisamente soft e “confortevoli”, se mi passate questo termine: “Say goodbye” e “Hi line” mi trasportano in uno di quei saloni illuminati da luci fioche e tremolanti, dove le tue compagne sono la chitarra e la neve che vedi cadere fra gli alberi delle foreste del Montana. Nonostante mi sia ripromesso di non azzardare paragoni, considero questi due pezzi come una sorta di appendice del lavoro solista dell’ex benzinaio Vedder (anche se manca la potenza evocativa di “Guaranteed”, “The wolf” o “Far behind”); “Life of a salesman” ricorda da vicino il lavoro solista di Gossard nei suoi momenti migliori; la chiusura del disco è affidata a “The only cloud in the sky” episodio di rock quasi “tribale”, che ci riporta alle atmosfere di alcuni passaggi di “No code”. Ma Ament ci rammenta, se ce ne fosse bisogno, di aver partecipato a quel capolavoro che è “Temple of the dog”: “Doubting Thomasina” è il valore aggiunto di questo disco, una canzone che interpretata da Chris Cornell avrebbe potuto reggere il confronto, a mio modesto parere, con “Call me a dog”, dal citato progetto dell’aprile ’91 (ma la prestazione vocale è comunque notevole).
“Tone” è un bel disco, suonato bene, registrato bene e che fa trasparire in maniera inequivocabile ciò che è alla base di qualsiasi professione: l'amore per quello che si fa e il talento. Jeff Ament ha dimostrato, a mio parere, di averne. Del resto, “Nothing as it seems” è lì a ricordarcelo da ben 8 anni.
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