Jeff Beck's Guitar Shop è molto più che un'album strumentale e forse molto più di qualsiasi altra cosa vi venga in mente.

Non è un semplice showcase di capacità e tecnica ne un mero assemblaggio di riff triti e ritriti e assoli sparati alla velocità della luce. Non è niente di tutto ciò. Qui si sconfina nell'assurdo, ma nel senso più positivo della parola: dopo l'ascolto di questo lavoro si rimane allibiti; non ci sono parole per descrivere cosa sia  riuscito a fare Beck con la chitarra e con quanta naturalezza sia riuscito a mettere la sua anima, la sua passione, la sua energia su di un vinile. Non c'è una nota buttata al vento, nessun "riempitivo", ogni canzone ha un suo perchè e si differenzia da quella precedente per il tocco che Beck riesce infondere ad ognuna adoperando diversi stili, non solo tra una canzone e l'altra, ma all'interno di ogni singola composizione, andando addirittura a toccare delle sonorità semi-reggae in "Behind The Veil" che pure si rivela come una delle migliori del lotto, con quella sua chitarra sognante che regala al pezzo un'atmosfera unica, a suo modo epica. Si passa anche attraverso bordate chitarristiche vere e proprie come "Big Block" e "Stand On It" con assoli lancinanti ed esposioni di tapping, il tutto senza mai sfiorare minimamente una pacchianeria tipica di sboroni sensa senzo quali Steve Vai e Malmsteen, tanto per citare i primi due che mi vengono in mente (e quasi mi vergogno di accostare Beck a questi due personaggi). Classe infinita quella di Beck, come ci dimostra anche la title track "Guitar Shop" con un riff che è una mezza genialata e cha a tratti pare confondersi con le tastiere di uno scatenato Tony Hymas. Per farsi un'idea di cosa Beck è capace di tirar fuori da una fender, basta ascoltare 3 dicasi 3 secondi della canzone in questione: minuto 2.05, 3 secondi che valgono una canzone, maledizione. Da mano nei capelli.  Da segnalare la terremotante batteria di Terry Bozzio (e un accenno a lui era più che doveroso: impeccabile, per non dire stratosferico, il suo lavoro alla batteria che si rivela un'autentico valore aggiunto all'album, come se non bastassero i prodigi di Beck).

Credetemi quando vi dico che se l'album fosse composto dalle solo canzoni che ho citato, tanto basterebbe a definirlo capolavoro (parola stra-abusata, ma in questo caso non saprei come definire tanta meraviglia). Ma c'è qualcosa di indescrivibile che manca all'appello, una perla di rara bellezza, uno schiaffo da quale non mi sono ancora ripreso. Sto parlando dell'emblema del disco, ma che dico, di una carriera intera ovvero di quell'opera d'arte che definire "canzone" sarebbe assolutamente riduttivo: "Where Were You". Un crescendo di emozione e pathos con Beck che sembra stia cantando e piangendo attraverso la sua chitarra, diventando un tutt'uno con lo strumento, producendo suoni che trasportano la sua mente all'unisono con la nostra verso destinazioni ignote. Non ci sono parole per descrivere tanta magnificenza. La sensazione è quella di un cieco che riacquista la vista ma che perde l'uso della parola. Troppa grazia davvero. E lo stesso Beck ha dichiarato che "Where Were You" è la sua composizione che più lo rappresenta, che racchiude in essa tutta la sua visione artistica della musica espressa in 40 anni di attività e che  un giorno vorrebbe essere ricordato proprio per quella canzone che poi, tra l'altro, canzone non è essendo impossibile classificarla sotto un "genere" di appartenenza: blues? jazz? fusion? no macchè, è Jeff Beck signori.

 

Carico i commenti...  con calma