E poi basta.
Ho chiuso quel cofanetto, promettendomi che m’avrebbe accompagnat_ nella tomba.
Questa storia comincia dalla fine, da quando un giovane trentenne muore annegato nelle acque del Mississipi, mentre stava incidendo un disco, il suo secondo disco, l’ultimo che lui ha fatto da vivo (a parte vari EP), anzi… pare lo abbia finito di terminare nelle sue parti tecniche il suo amico Chris Cornell.
A maggio ci vuole coraggio a morire, diceva De Andrè, eppure succede, e succede anche agli angeli, quelli che non ti aspetteresti mai che possano morire pure loro.
Un corpo che torna nel suo elemento primordiale: l’acqua. Un corpo che galleggia dopo due giorni e lo riconoscono dal piercing all’ombelico di chi è.
Il corpo di un certo Jeff Buckley.
“Jeff chi!??!?!” fa la commessa del megastore in centro.
- Ma pensa a metterti quel rossetto fuxia e a mesciarti i capelli con quegli orribili colpi di sole, troia… -, penso io un po’ irritat_.
Ma chissenefrega, che ne vuole sapere di sensibilità, una così?
Mi chiudo dentro le cuffie, il minidisc parte: “Last Goodbye” si chiama questa canzone: bella come poche, bella come mai ce ne saranno più, bella e basta.
Ripenso al concerto che ho avuto la fortuna di vedere al Vidia Club di Cesena… era il 17 febbraio 1995 e mi ricordo il freddo cane di quella notte, mi ricordo la piadina che ho mangiato prima di entrare in quel buco di posto, mi ricordo il lungo mare di Rimini, e i suoi bagni, mi ricordo quell’aria felliniana che respiravano le narici.
Mi ricordo un sacco di cose di quella sera. Mi ricordo di lui, soprattutto. Piccolo, esile, con quei capelli spettinati e la camicia a scacchi sdrucida, l’aria smarrita di chi ancora deve prendere confidenza, ma che quando la prende si toglierebbe il cuore e te lo darebbe, se solo ne avessi bisogno.
Mi ricordo di lui seduto ad un tavolino del bar, prima dell’inizio del suo concerto, a parlare con un giornalista. Addirittura ci avevano fatto entrare… tanto… “Ma chi cazzo è ‘sto Jeff Buckley? Chi lo conosce? Ha fatto si e no un disco… che si chiama Grace… ma qui non lo conosce nessuno… boh..” questo diceva qualcuno capitato lì per sbaglio.
Certo… non lo conosce nessuno…
Eppure io vengo da Roma, ho la febbre alta, il mal di gola… e un po’ di tempo fa ho sentito questa “Grace” su RadioRock: metto le quattro frecce sulla tangenziale, prendo di corsa un pezzo di carta scarabocchiato e una penna che naturalmente non scrive, e aspetto che lo speaker mi dica chi sia a cantare questa specie di meraviglia sonora… “il figlio di Tim Buckley”… - Ma và? Tim Buckley ha un figlio…?!?! E da quando?!?!? -
E’ chiaro che sono cors_ al mio negozio di fiducia, se mai se ne può avere uno di fiducia a Roma… e infatti mi sento rispondere “Jeff chi!??!?!”. – ‘fanculo pure tu’.
Si sa… perseverare è… diabolico? Si, no. Comunque il disco lo trovo dopo un paio di giorni e con quel risolino di soddisfazione vado a casa, mi butto sul letto, e comincio ad ascoltare.
Ecco. Ecco. Ecco.
Le tracce del cd si susseguono… Mojo Pin…Grace… Last Goodbye… Le tracce vanno... fluide… le tracce...? Dove sono finite…? io non riesco più a pensarle come “tracce”… infatti diventano SOLCHI, diventano SQUARCI, diventano fosse che mi scavano le ossa e che non so ancora spiegare quanto dolore misto a piacere e sublimazione mi abbiano provocato. Come stimmate le porto addosso, e se mi guardo adesso, mentre scrivo, le riesco a vedere ancora, solo che ora sono cicatrizzate, come le smagliature sulle cosce di certe ragazze.
Io non credo di riconoscere questa musica in altre musiche, come spesso accade, anzi, come troppo spesso accade. In Grace c’è l’originalità che rende unico il disco, e lo fa diventare “pietra miliare”, come può essere un disco dei King Crimson, o dei Beatles, o di Bowie… insomma… il disco con la D maiuscola, quello che ti porti sull’isola deserta, o nella bara, come il mio caso.
Io non so recensire, non so parlare di questo o quell’artista in maniera tecnica e professionale, non so nemmeno scrivere probabilmente, ma so riconoscere le sensazioni, le emozioni che ti regalano poche cose nella vita terrena. So riconoscere quella sensibilità così rara, e la so riconoscere proprio perché è ‘rara’, e non fasulla.
E so anche riconoscere una Fender Telecaster, ormai.
Io non so recensire, quindi. So solo trasmettere quello che provo quando l’ascolto.
Ed è questo:
Sai quando resti immobile in una posizione per secoli? Tanto che ti sembra che sia passata un’eternità e invece è passata solo un’ora scarsa...? Eh. Così.
E sai quando fai l’amore? Che arrivi a quell’orgasmo unico? Insperato? Disperato? Che ti avvinghi al corpo dell’altro tanto da volergli urlare “non lasciarmi mai più” ma poi sai che l’amore passa, gira e se ne va, prima o poi. Eppure quell’attimo, quell’istante preciso… se lo fermi, se lo blocchi in tempo… ha quasi il sapore dell’eternità. Come Grace.
Grace è proprio quell’attimo. Quello che non torna più. E che sogni per sempre.
E poi basta.
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