Visto ieri sera sul circuito Netflix, che ha prodotto questo cosiddetto biopic sui Mötley Crüe, il film The Dirt non poteva non evocarmi il mito di Persefone.
Sappiamo che Persefone era l’amatissima e fichissima figlia di Demetra rapita da Ade per farne la sua consorte, e alfine liberata su ordine di Zeus in persona, che inviò Ermes nel regno dell’oltretomba. Ade sembrò piegarsi al volere di Zeus, ma prima che la sua sposa salisse sul cocchio di Ermes, le fece mangiare un seme di melograno, compiendo in questo modo un incantesimo che le avrebbe impedito di rimanere per sempre nel regno della luce. Giustamente nel reame di Ade era proibito magnare, se non altro per rispetto dei trapassati. Avendo Persefone mangiato il seme di melograno nel regno dei morti, Zeus stabilì che vi avrebbe fatto ritorno ogni anno, e per un lungo periodo. Fu così che Demetra decretò che nei sei mesi che Persefone fosse stata nel regno dei morti, nel mondo sarebbe calato il freddo e la natura si sarebbe addormentata, dando origine all'autunno e all'inverno, mentre nei restanti sei mesi la terra sarebbe rifiorita, dando origine alla primavera e all'estate. Ma questa delle stagioni è un’altra storia che c’entra punto con i Mötley Crüe, essendo rockettari senz’altro buoni per tutte le stagioni. Quello che c’entra è la debolezza di Persefone nell’aver accettato il seme di melograno, compromettendo la propria salvezza, riducendola ad un riscatto a tempo determinato.
Esattamente quello che è successo ai quattro componenti della band, anzi della gang (come si autodefiniscono all’inizio del film) dei Mötley Crüe. Negli anni ’80 ne combinano di ogni, nutrendosi abbondantemente di semi di melograno ed altri frutti inquietanti, ma dopo aver toccato il fondo ecco che si redimono, promettono che non masticheranno mai più semi e semini, manco un anacardo (difatti nell’89 producono Dr Feelgood, forse il loro miglior album) ma si capisce che alla fine ci ricascano, un granellino di melograno mica se lo fanno mancare, e così si torna a fare il pendolo tra inferno e paradiso (ehi, già lo so che qualcuno obietta ma quale dei due è il vero inferno…).
Questo è, secondo me, uno dei punti deboli nella costruzione del film, perché nella seconda parte, dopo averci esposto con dovizia di dettagli la discesa agli inferi degli anni ‘80, si vorrebbe fare spazio alla storia di redenzione, per la serie cavoli è un miracolo se siamo sopravvissuti ma forse era destino e quindi ci rimettiamo insieme facciamo i bravi e riprendiamo a fare la nostra musica e lo mettiamo in culo al mondo. E qui casca l’asino, anzi gli asini.
Ma partiamo dall’inizio.
Prima scena del film ed entriamo subito nel vivo dei giochi. E’ il 1981 ed i quattro ragazzacci della band appena nata frequentano il locale Whisky a go go nella città degli angeli, poi si trasferiscono nella loro magione, con la porta inchiodata per evitare le irruzioni della polizia. Qui ognuno dei quattro si esibisce in un piccolo numero, tanto per dimostrare agli spettatori chi sono, ovvero: Vince Neil incula una semidea nel cesso, mentre il fidanzato bussa alla porta “amoreee sei li?”, Tommy Lee va giù di fellatio con una ninfa un po’ grezza al fine di provocarle uno squirting a fontanella, Nikki Sixx si dà fuoco ad una manica del giubbetto e Mick Mars disteso su un letto fissa catatonico il soffitto. Melograni a catinelle e tutti e quattro a proclamare fieri che loro sono una gang, mica solo una band.
Lo stile delle riprese è quello da videoclip, ritmo serrato, scene tagliate veloci e qualche ralenti, mentre per la narrazione si utilizza lo stile intradiegetico, con i nostri eroi che uno per volta raccontano la propria storia con il solito metodo del flashback. Si parte con Nikki Sixx, poi a rotazione ognuno degli altri tre assume il ruolo di narratore. Ed ogni volta il tono della narrazione cambia a seconda del personaggio e di come si presenta.
Dicevo, introduce Frank Feranna, che diventerà poi Nikki Sixx, ad incarnare a meraviglia un campione di devastazione morale. Il padre è solo un nome che non vuole essere disturbato, quando si trasforma in una voce all’altro capo del telefono. La madre cambia compagni come kleenex, molti con la tendenza a prenderlo a botte. Per uscirne deve ricorrere all’autolesionismo, si incide un braccio e chiama la polizia facendo accusare la madre di lesioni. Tutto ciò serve a giustificare le scelte successive e lo stile di vita dedito ai melograni, oltre che ai meloni delle fanciulle visitate. Ha un vuoto interiore da riempire e ferite da curare, il ragazzo, mica è colpa sua se fa certe cose.
Il chitarrista Mick Mars, al secolo Robert Alan Deal, affetto da spondilite anchilosante, tiene per sé la parte del grillo parlante di memoria collodiana, sarà forse perché del quartetto è sempre stato quello tendenzialmente più lontano dagli eccessi, a parte il giusto fraternizzare con i colli di bottiglia.
Esilarante il modo di presentarsi del batterista Tommy Lee, come bravo figlio di mamma, animato da sinceri sentimenti nei confronti di fanciulle di cui si innamora con l’unico scopo di farne la propria sposa e madre dei suoi futuri dodici figli. Il bello è che i vetero-nerds genitori ne sono assolutamente convinti.
Il cantante Vince Neil è quello su cui il destino sembra accanirsi come nemesi. Prima, nel 1984, guidando la sua supercar in stato di ciucca, si schianta provocando la morte di Razzle, batterista degli Hanoi Rocks, che stava viaggiando assieme a lui. La morte di Razzle porta la sua famiglia e gli Hanoi Rocks a fargli causa, e Neil è condannato ad un mese di carcere, scontandone solamente 19 giorni dietro il pagamento di una cauzione. Poi il dramma della morte della figlia, Skylar, nel 1995, per un cancro allo stomaco.
Intanto Vince era stato cacciato dal gruppo in quanto i suoi sodali gli contestavano scarso impegno ed allergia al team working. Incredibile dictu.
L’ambientazione delle scene, guarda un po’, è quasi tutta in interni. Mai una panoramica, se non su tette e culi (ammetto scelti con ammirevole perfezionismo), nada carrellata su esterni, salvo forse la scena della piscina di cui dirò a breve. Da un lato la produzione risparmia, ed il regista se la può tirare dicendo che ha voluto enfatizzare il senso claustrofobico di vita oppressa dagli stravizi, e dall’altro lato si rimane coerenti ad un modo di vivere fondato sul fottiamo e droghiamoci come non ci fosse un domani e che il resto del mondo vada a cagare. Quindi si passa continuamente da interni di case ridotte a bordello a bordelli trasformati in casa, dai palchi di lapdance ai palchi dei concerti, dai camerini con groupies succhianti alle feste con risucchi, dalle cabine di aerei privati alle cabine di registrazione. Quest’ultimo aspetto, dei momenti dedicati alla musica, è peraltro ridotto ai minimi termini.
Ma come, (si) chiederà un pivello, producono un biopic su di un celebre gruppo rock e non ci mettono dentro la loro musica? Ma certo, risponderei, perché questo non è un film su quattro musicisti e su cosa fanno quando non suonano. Questo è un film su quattro giovani tizi di L.A. che negli anni ’80 si trovano più soldi di quanto ne riescano a spendere, provandoci comunque in tutti i modi, ma non riuscendoci in quanto distratti dal dover ogni tanto suonare e fare concerti. La musica, in questo film (evidenzio perché non sono qui a dare un giudizio né sui Mötley Crüe né sulla loro musica), recita la parte di una modesta comparsa, giusto all’inizio del film, quando la band si sta formando, un attimino qua e là, ed una spruzzatina verso il finale. E basta.
Tutto è narrato con un ritmo veloce e dovizia di dettagli sugli eccessi in cui si producono i nostri eroi. La scena culminate è senza dubbio quella in cui si trovano a bordo piscina in una pausa del tour in cui fanno da supporto a Ozzy Osbourne. Atmosfera rilassata da hotel di lusso, american tourists a prendere il sole accanto ai nostri eroi spiaggiati sui lettini, ecco che arriva Ozzy ad animare questi quattro babbei et voilà afferra la cannuccia nel bicchiere di Nikki, la infila in narice, individua una processione di formiche lungo le mattonelle ci si inginocchia accanto e le aspira allegramente. Poi si cala il pantaloncino ed urina sulla medesima piastrella, il servizio bar latita e fa caldo, quindi tocca leccare il proprio piscio per trovar frescura. Prontamente imitato dal discepolo Nikki. Applausi dalla platea dei bagnanti.
Per stomaci forti è anche il susseguirsi di scene da ago in vena del nostro eroe Nikki. Fino alla finale overdose da eroina con salvataggio in extremis da siringa conficcata nel muscolo cardiaco.
Così arriva il momento del ritorno dagli inferi. Nikki capisce che deve svoltare e promette di fare il buono, mai più zelanti waitresses che porgono lucidi vassoietti con il trito di merda già disposta in righe. Ed il nuovo verbo salutista dovrà essere recepito anche dai compari di merende. Difatti segue una scena in cui arrivano sempre le medesime waitresses con i medesimi vassoietti, ma questa volta colmi di frutta e succhi energetici. Vagamente ridicola. E fase di breve durata, come l’estate di Persefone. Anche se lo stesso Nikki dichiarerà in un’intervista:
Ho imparato che la droga è come i cerotti, e che i cerotti non funzionano. Devi pulire la ferita. Ho affrontato tutto questo insieme alla fama e al successo. In alcuni momenti della mia vita avrei potuto prendere decisioni migliori.
Ed eccoli i nostri eroi, alla fine riappacificati, sul terminare degli anni ’90, a ritrovarsi nel pub dove Vince Neil affoga il dolore per la morte della figlia. Volemose bene, mettiamo una pietra sopra i dissidi passati e ricominciamo da dove eravamo rimasti, che l’happy end si avvicina.
A proposito di happy end, qua mi si ingrossa l’intervento di Netflix, sempre più nel ruolo di Major hollywoodiana onnipotente. Il regista di “The Dirt”, Jeff Tremaine, avrà accolto certo senza problemi quello che deve essere stato un diktat della produzione. Della serie fai che cazzo vuoi nella prima parte, ma poi infilaci il lieto fine, che del resto questi quattro stronzi sono rimasti vivi e almeno ‘sto merito glielo dobbiamo riconoscere. La voce del padrone Netflix qua dev’essere risuonata imperiosa. Siamo americani, zio palombaro, e noi americani abbiamo bisogno del lieto fine. Il lieto fine è un nostro diritto, da sempre, i nostri spettatori lo reclamano!!!. Ed è ovviamente coerente con il messaggio di redenzione. L’happy end non solo rassicura, ma permette anche di chiudere la narrazione in modo definitivo. Dopo l’happy end non può più succedere nulla, perché le persone felici non hanno più nulla da dire. Se la godono e basta. Come i nostri quattro eroi che alla fine si abbracciano felici e corrono verso il palco, pronti per una nuova performance. Santa America.
Ma dopo tutti ‘sti sproloqui, mi chiederebbe mio cugino, tu a ‘sta minchiata di film che valutazione dai? Quante palle? Mah, io mi sono pure divertito nella prima parte, tralasciando alcune incoerenze e soprattutto la mediocrità degli interpreti, credo scelti esclusivamente in base ad una possibile somiglianza con i veri Mötley Crüe. E ho detto tutto. Poi il ritmo si allenta, e i pochi neuroni superstiti si rianimano, iniziano a pensare a quanto sopra, ed ecco che fatico a dargli due palle.
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