Fuzz-Tone! Distorsioni! Drone! Questi ed altri articoli altrettanto succosi sono compresi nel delirante e colorato pacchetto natalizio degli ultimi cinque anni di rock in California!
I nomi ormai sono celebri: Thee Oh Sees, Ty Segall, White Fence, ma assieme a loro centinaia di band più o meno conosciute che orbitano a dovuta distanza. Più si parla di una scena rock spezzettata, più la deriva psychedelic-garage-drone diventa un imperativo categorico. Dalle fusioni free jazz della Squadra Omega al garage delle volte in salsa kosmic degli In Zaire anche nel nostro paese questa tendenza ha creato dei mostri meravigliosi, delineando un filo ancora molto sottile (perché non supportato dalla visione storico-critica che arriverà tra qualche anno) tra Europa e America nel modo di riprendere certi stilemi dei sixties e sintetizzarli nel caos contemporaneo.
Bene, Jeffrey Novak in sostanza con tutto questo centra poco o niente.
Novak è di Nashville, fiera capitale del Tennessee, terra dall’humus country piuttosto che psichedelico. E non è un caso se la sua rielaborazione degli input californiani sia lontana dai lancinanti feedback di “Slaughterhouse” (2012) di Segall, dalla psichedelia moderata dei The Mallard e di White Fence, e ovviamente lontanissima dalla genialità irrequieta di John Dwyer e dei suoi Thee Oh Sees.
Novak è una piccola scheggia pop all’interno della psichedelia contemporanea, capace di riprendere il filo dei Beatles mischiandolo con Syd Barrett senza alcuna abrasione dovuta al contatto.
Quest’anno è uscito “Lemon” del buon Novak, ma dato che le mie riserve sono a secco più o meno da sempre mi sono accontentato di acquistare il suo album dell’anno scorso, ovvero: “Baron In The Trees” (il titolo è la celebre traduzione inglese de “Il Barone Rampante” di Calvino).
In Baron la fa da padrone l’acidità di Barrett (presente sopratutto nella performance vocale), ma la musica è molto pop prima ancora che rock. Eppure nella sua confezione abbellita di archi (Parlor Tricks) di rimandi floydiani esagerati, di pezzi impacchettati ad arte (Watch Yourself Go) di hit accattivanti (Here Comes Snakeman) quello che rimane è poco ma ben organizzato.
Alla costante ricerca della melodia orecchiabile Novak riesce sempre a fare centro, condensando in mezz’ora (sì, è un album piuttosto breve) piccole perle pop di ottima fattura. Per quanto mi riguarda considerando che iniziò con una spiacevole fusione di garage e glam con i suoi Cheap Time, e considerando un White Fence già ridondante col poco convincente “Cyclops Reap” e la deriva acustica che, per quanto ben confezionata, fa addormentare al terzo minuto di Mikal Cronin in “MCII”, credo che Novak andrebbe rivalutato tra le seconde linee, postulando che la panchina è il luogo che gli compete.
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