Jesse Malin è nato a Brooklyn e racconta storie di bevute, emozioni, amori sfasciati e drop-outs disperati, con quel tipico fare che solo chi è nato e cresciuto in quel caos in technicolor potrebbe avere. Nei suoi tableaux musicali traspaiono un'ironia, un sentimento e un candido entusiasmo che a tratti ricordano l'alter-ego esaltato di John Fante in "Ask the Dust".

Il pezzo che apre il disco, "Queen of the Underworld", è una ballata piena di ritmo, che - quando uscirà come primo singolo il 20 Gennaio - potrebbe conquistare un discreto indice di programmazione radiofonica.

"Riding on the Subway" (track n. 7), inizia con un ritmo sensuale, seppur un po' banale, e si trasforma in una colonna sonora di un mini-film che racconta di incontri casuali e di quello che avrebbero potuto essere. Forse un niente. Forse quello che tutti abbiamo provato almeno una volta nella vita.

Malin è un troubadour contemporaneo, ispirato musicalmente da Young, Waits e Dylan. Dal vivo è ironico, caustico, con uno humor alla Joe Pesci che riesce a intrattenere il pubblico per piú di un'ora senza alcun problema e che raccomando caldamente di andare a sentire quando il prossimo Marzo verrà in Italia.

Per una demente scatenata come chi scrive, il genere di Jesse Malin è un po' troppo "tranquillo", lento, ma non della stessa lentezza cupa e simbolica delle "Field Songs" di Mark Lanegan, che s'addice meglio alla personalità della sottoscritta. Ma questo e' un parere strettamente personale.

"The Fine Art of Self Destruction" (One Little Indian Records) è senza dubbio un ottimo album, la produzione di Ryan Adams contribuisce a creare un album allo stesso tempo crudo e romantico, da "ascoltare" attentamente per capirne a fondo l'onesto approccio e l'inusuale profondità.

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