Il pifferaio di Dunfermline e la sua corte di accoliti ci regalano questo disco nel 1999, dopo ben 4 anni dall'ultima produzione Tulliana (Roots to Branches). Si potrebbe immaginare che dopo un periodo così lungo di attesa fosse lecito aspettarsi qualcosa di veramente notevole, vista la lunga gestazione. Ma in realtà Anderson in quel periodo aveva cominciato già a interessarsi a molte altre cose che non fossero la sua "creatura" Jethro Tull. Iniziò una carriera solistica al fianco di orchestre più o meno famose sperimentando musica dei Tull in versione sinfonica e anche altre creazioni autonome dai Tull. Anche il fido e solido Martin Lancellot Barre fece il suo primo album solista in quel periodo.

Ma evidentemente del materiale già "covava" da tempo nella mente genialoide di Mr. Anderson ed era numericamente sufficiente per farne il nuovo album dei J. T. Inutile sottolineare che la commistione tra più generi (cosa che ha caratterizzato la musica di questo irripetibile gruppo da sempre) trova qui l'ennesima materializzazione. Tornando al fatto che le attese dei fans erano elevatissime, va detto subito che la musica raggiunge qui una perfezione tecnica elevatissima, non si respirano le intuizioni geniali dei primi lavori, ma via... sempre roba di classe è.

Il disco inizia con un brano in pieno stille Tull elettrico con una "svisata" di flauto Andersoniana che più non si può e il gruppo intero che entra subito dopo con un bello scossone ritmico. Il pezzo si intitola Spyral e vede la partecipazione di tutti e cinque i "ragazzini" in modo molto misurato ma "forte". Forse non eccelso il brano in questione, ma sicuramente un bell'inizio che subito ti scalda le orecchie e l'anima.

Il pezzo seguente è la title track e ha davvero una struttura che potrebbe spiazzare tutti i fans più agguerriti, ma invece ti conquista subito con la sua delicatezza in un atmosfera vagamente oriental-ethnic con Ian che soffia con forza e dolcezza nel bamboo flute. Qui c'è anche la partecipazione di una cantante orientale che si chiama Najima Akhtar, la quale dona atmosfera a piene mani al brano. Sembra che (Anderson docet...) abbia chiesto un bel mucchio di quattrini per incidere il controcanto di questa "song".
Un altro brano bellissimo, e forse è la vetta del disco intero, è la seguente Awal. Qui siamo di fronte ad atmosfere rock metropolitane con interventi flautistici da incanto, segno di una tecnica ormai quasi perfetta raggiunta da Ian Anderson. Ma anche il basso del giovane Jonathan Noyce e le tastiere del poliedrico Andrew Giddins (mai pomposo), sono incredibilmente presenti.

Ci sono alcuni pezzi di questo disco che si possono anche tranquillamente saltare a livello recensivo poichè non è che rappresentino qualcosa di memorabile (Wicky windows, Nothing @ all, Black Mamba, El Nino), tutti brani abbastanza anonimi e senza picchi.

Ma c'è qualcosa di inaspettato, qualcosa che mai ti aspetteresti dai Tull, (e siamo alla seconda "spiazzata di Dot Com). . . Mi riferisco alla canzone Hot Mambo Flush, dai ritmi a metà strada tra la musica tropicale e il calypso con un Martin Barre particolarmente virtuoso alla chitarra acustica e nel "reprise" del pezzo in questione l'aspetto tropicale si moltiplica. Bhe', una bella botta di novità.

Un altro momento attraente è rappresentato dal brano Bends like a willow. E qui a farla da padrone sono la chitarra e le tastiere miscelate fino a formare un suono unico, ma mai ampolloso anzi... decisamente di atmosfera degna della voce di Ian che qui si colora quasi come ai tempi d'oro. Da notare anche il drumming del "Big Boy" Doane Perry, che esagera davvero in bravura specie nel gioco di charleston. Un pezzo che su un ritmo abbastanza sincopato e dall'arrangiamento sopraffino ti porta davvero per sentieri bellissimi.

La chiusura è affidata a un blues-folk davvero intrigante dal titolo The dog ear's year e a uno splendido affresco folk elettrico con interventi di fisarmonica del bravissimo tastierista Andrew Giddins

Insomma, che dire? Io credo che se si debba basare un disco di una band così gloriosa su quanto ha fatto in precedenza, forse il giudizio dovrebbe essere positivo ma non eccessivamente, se invece si deve (e credo che la cosa sia più giusta) giudicare un lavoro anche in base al clima musicale del periodo e alle mode imperanti, allora Dot Com è un lavoro che si fa ascoltare dannatamente bene. Un rock robusto, raffinato, ora dolce, ora sognante, ora aggressivo... a pensarci bene che cosa è tutto questo se non la magica musica che i Tull ci regalano da 38 anni?

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