“La ragazza, vedendomi nervoso, mi chiese se gradissi una tazza di thè, ma ero troppo scosso per quanto stava succedendo e non senza rimpianti rifiutai. Fuori i colpi dei cannoni facevan tremare i vetri alle finestre e le sirene strillavano in continuazione; lei dispiaciuta volle rincuorarmi: prese il violino, lo sistemò sotto la guancia rosata e si mise a suonare. D’improvviso fu come se gli spari e gli scoppi fossero confinati all’ esterno, intorno a me esisteva solo lei e quella melodia: rimasi rapito a fissare le sue dita sottili ed i suoi capelli lisci agitarsi assieme alle sue spalle gentili. Ancor’oggi non ho dimenticato quelle note…”
Ora, chiedendo perdono per questa vaccata qua sopra, superstite di ben altra recensione non per nulla cestinata, passerei a parlare di quel “WarChild” che uscì nel millenovecentosettantaquattro e che per certi versi fu l’album della svolta…
Per i Jethro Tull era terminata la breve ed intensa stagione progressive, nonostante nelle opere seguenti molte caratteristiche dell’epoca torneranno a farla da padrone. L’anno precedente “A Passion Play” aveva portato la band all’apice della scalata emotiva intrapresa fin dagli esordi, e fu l’inizio della crisi definitiva nei rapporti con la critica; Ian Anderson subì un profondo disincanto verso la società e decise d’intraprendere un’altra strada con la band, quasi da percorrere in solitaria. Ian stava come compiendo una metamorfosi, ormai s’apprestava sempre più a vestire i panni di un giullare, del menestrello che in musica dice quello che gli pare. La cosa sarà evidente a chiunque con l’album dell’ anno seguente, esplicito fin da titolo (“Minstrel In The Gallery”) e copertina.
In un certo senso un primo anticipo di questa mentalità è nell’apertura del magnifico “Thick As A Brick”: davvero non m’ importa se non mi volete ascoltare!! A me personalmente “Warchild” è piaciuto subito, opera più complessa di quanto si creda, e concept che nulla ha da invidiare a tanti altri lavori contemporanei. Inoltre la gran varietà strumentale (i violini, ancora il sassofono come nel fantastico predecessore, un incisivo piano, la fisarmonica, gli interventi dell’orchestra) contribuisce a conferire ulteriore spessore all’opera. Le tematiche sono quelle che spesso caratterizzeranno anche gli anni a venire; Ian le affronta senza falsi pudori, come sempre. Il pifferaio volle parlare della guerra e lo fece attraverso gli occhi di un bambino soldato nella title-track: danza, bambino di guerra, notte e giorno, dimentica le pene e godi appieno dei piaceri della vita… La canzone è una decisa ballata, dall'incedere inesorabile, culminante in un bellissimo tema per sassofono ed orchestra. Ma la guerra non nasce da sola, e allora partono gli attacchi a chi nei secoli ne è responsabile, le alte cariche politiche ed istituzionali. Ne sono esempio “Queen And Country” e la delicata “Ladies”, amare riflessioni sulla società del passato e del presente, tra aristocrazia corrotta e prostitute. E ancora “Bungle In The Jungle” (gran successo negli U.S.A., nonostante musicalmente sia forse l’episodio meno rilevante dell’album), in cui il paragone è con un mondo alquanto selvaggio, dove vincono i forti e i furbi. E poi “Sea Lion”, brano molto Tulliano, riflessione sullo spettacolo visto spesso come un mero velo celante la realtà delle cose (“Guardate come teniamo in equilibrio sulla punta del nostro naso il Mondo, come dei leoni marini a carnevale… ”).
E più ancora della società, la religione, già criticata in passato (la dura “Back-door Angels”, con un Martin Barre in gran evidenza: i testi sono criptici come sempre, qui in particolare, ma l’immagine degli Angeli della porta di servizio è non poco evocativa… ). E se “The third Hoorah” è una bella ripresa in chiave molto “scottish” della title-track, “Only solitarie” è la perla acustica di turno, testimonianza ulteriore della fase che Anderson ha intrapreso. In tutto questo emerge una perla, brano tra i migliori mai scritti da Anderson: “Skating Away On The Thin Ice Of The New Day” … la fisarmonica accompagna Ian in una melodia perfetta, ricordo i miei occhi sgranati quando l’ascoltai la prima volta. Da brividi!! L’album è chiuso da “Two Fingers”, sorta di predica che ricalca il ruolo di “Wind Up” in “Aqualung”. Canzone molto bella, caratterizzata da un fluidissimo arrangiamento, si distingue per il testo ricco di metafore e quant'altro: emblematico il verso che, tradotto molto liberamente, dice: “Quando morirete, e diventerete polvere, assicuratevi di lasciare le mutande a qualcuno di cui vi fidate” .
Tracciando una conclusione, “War Child” è un ottimo album, certo non un capolavoro, forse penalizzato dal fatto d’esser stato pubblicato tra due fantastici lavori dei Tull (un destino per certi versi analogo a quello di altri due album, “Benefit” e “Too Old To Rock’n’Roll: Too Young To Die!”, il secondo dei quali certo non così malvagio come si crede, anzi… ). È opera solida, nonostante una gestazione piuttosto lunga (alcune canzoni scritte già nel '71, la stessa "Two Fingers" fu esclusa da "Aqualung" e successivamente riadattata): ellepì davvero piacevole, con almeno un paio di bellissimi brani, ottimi arrangiamenti (ancora il gran lavoro di David Palmer) e le tematiche classiche dei Jethro Tull forti come non mai. E il passaggio verso la Musa di Baker Street è brevissimo!! Skating away…
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