A volte ci si siede sugli allori. A volte si crede di aver capito tutto, comprato, scaricato e sentito tutto, e tutto poter insegnare e consigliare. Poi si scopre che nella propria esagerata discoteca, frutto di un’infinità di sacrifici pre-emule e di mille rinunce, mancava uno dei dischi più belli e più perfetti della storia del jazz. E mancava perché, come spesso accade, ci si innamora di uno strumento, di un musicista, di un modo magari anche un po’ preconcetto di concepire il jazz. Ad esempio, nel mio caso come in quello di mille altri, ci si innamora dei sassofonisti, e in particolare di Trane, di Bean, di Lester, Dexter e tanti altri. Poi viene il momento totalizzante e rincoglionente di Miles, quando tutto il mondi ti sembra che cominci e finisca lì. Poi affronti il free e te lo fai piacere. Poi la fusion e apprezzi la ritmica e la studiata e furbetta scolasticità dei suoi protagonisti. Poi magari ascolti, più vecchio e disincantato, la voce e la tromba di Louis, e ne capisci l’infinita e adulta grandezza, inconcepibile a vent’anni. Però la chitarra jazz no. Almeno nel mio caso. E pensare che in casa ho più chitarre che scarpe. Ma la chitarra jazz m’ha sempre puzzato di secchionaggine, di ricamini, di arzigogoli. Certo… : c’ è Wes, e chi lo nega. E Joe Pass, e Jim Hall, e molti altri. Ma li si è sempre alcoltati con una punta di spirito snob, come se il vero jazz se ne stesse altrove.

Poi capita d’ andare da FNAC in un malinconico pomeriggio torinese e prenatalizio e di comprare questo Concierto. Un po’ così, per inerzia e perché non si sapeva quasi più cosa comprare. Poi si arriva a casa, nella provincia nebbiosa della mia quasi-Bassa, e lo si mette nel lettore. E comincia una magia pura. Di quelle vissute tempo fa con l’Amore Supremo di Trane, o coi suoi Passi da Gigante, oppure stando Attorno a Mezzanotte con Monk o Miles. Qui tutto gira perfettamente. La sezione ritmico-armonica è affidata a sei sapientissime mani: quelle Roland Hanna al piano, di Ron Carter al basso e di Steve Gadd alla batteria. Proprio la precisissima presenza di quest’ ultimo mi fa pensare che il disco non sia così antico… : vado a leggere. 16 e 23 aprile del 1975. Strano… : eppure in quel decennio andavano altre cose… . Vado avanti ad ascoltare, aspettandomi il calo, la banalata, il colpo free addocchiante, la fusionata. Niente. Sempre meglio. Classico ma con un’ impostazione ritmica modernissima, data soprattutto da Gadd. Insomma. La Perfezione. Quella che s’incontra di rado, ma quella che, appena la vedi, la riconosci e sai che è Lei. E il merito non è certamente solo del protagonista, qui baciato da un’estasi di fraseggio a mio parere quasi mai raggiunta, né prima né dopo, ma anche dei due comprimari. E non stiamo parlando di due pirla qualunque… : stiamo parlando di Paul Desmond e Chet Baker. Talmente bravi, presenti e impeccabili che il disco poteva benissimo essere a nome del trio. Chet è semlicemente perfetto: il suo senso dei silenzi e la purezza triste della sua nota sono quelli di sempre, ma anche lui è in un particolarissimo stato di grazia. Desmond è Desmond. Il meraviglioso secchioncello del jazz bianco, quel costruttore barocco e incoerentemente minimalista che ci ha regalato alcune delle migliori emozioni che il jazz bianco ci abbia saputo dare. Una scuola grandissima per il sasofono contralto. Un professorino simpatico. Un personaggio unico. Il tutto, ovviamente, registrato benissimo.

La lista dei titoli spazia tra grandi classici di Ellington e Poter e partiture del chitarrista “ padrone di casa”. Ma la vetta assoluta del disco è data dalla versione minimalista e splendida del noto “Concierto De Aranjuez”. Quasi venti minuti di pura estasi. Ho, come tutti, altre versioni del “ concierto” . Su tutte quella di Segovia e quella celeberrima di Miles con l’Orchestra di Gil Evans. Bene… : questa non ha assolutamente nulla da invidiare, e credo che nulla si possa ancora aggiungere.

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