Correva l'anno 2003 e i recensori di tutto il mondo graffiavano i vetri nel tentativo di arrampicarsi. Questo non fece che confermare la genialità di Jarmusch (e, di conseguenza, l'imbecillità di chi lo incensava).

"Coffee and Cigarettes", nato come collage di corti (di cui il primo risale all'86), è un non-film. Mi spiego: quando decidiamo di evadere dalla grigia realtà prendendo in mano un libro, oppure andando al cinema, desideriamo una storia. No, lo so, è riduttivo. In realtà non chiediamo così poco: vogliamo una trama ben costruita, vogliamo dei personaggi interessanti, vogliamo uno stile accattivante, vogliamo risvegliare qualche sentimento latente, vogliamo un nuovo punto di vista da cui riflettere... ma in generale tendiamo ad accontentarci anche quando uno solo di questi aspetti viene messo in risalto.

Ecco, se mi chiedessero di cosa parla questo film risponderei: dei tizi bevono caffè e fumano sigarette seduti a un tavolo. Punto. E poi? Punto.

"Coffee and Cigarettes" è un film senza trama. I cortometraggi si susseguono senza alcun filo conduttore che non sia una tovaglia a scacchi o una tazzina; i personaggi, anonimi e senza nulla da dire, agonizzano in discussioni annacquate come il caffè che ingurgitano. La telecamera fissa non risparmia i lunghi e irritanti momenti di silenzio. Impossibile provare qualunque sensazione davanti a queste scene che traboccano di apatia. Impossibile cercare uno spunto di riflessione tra i dialoghi privi di significato, privi di mordente. Quel che più colpisce è che probabilmente se ci sedessimo in un bar e cominciassimo a origliare chi siede al tavolo di fianco, di sicuro ascolteremmo qualcosa di più interessante. La pellicola si concretizza in una gigantesca presa per il culo allo spettatore, il quale alla fine è costretto a inventarsi un significato da attribuire agli ultimi 96 minuti di vita. E Jarmusch intanto se la ride e si sfrega le mani all'idea degli incassi. A questa grande burla partecipano alcuni amici del regista: un Benigni tutto fumo e niente arrosto, un Tom Waits tutto smorfie e niente sostanza (siamo ben lontani dai tempi di Daunbailò, ahinoi), ai quali si aggiunge un cast di prim'ordine: spiccano Bill Murray, Cate Blanchett, Steve Buscemi, Alfred Molina... senza contare le partecipazioni di membri della scena musicale americana (oltre al già citato Waits) Iggy Pop, Meg e Jack White dei White Stripes, GZA e RZA del Wu Tang Clan... tutti insieme appassionatamente a scambiarsi banalità e sguardi vacui davanti alle inquadrature fisse, insistenti. Un film aggressivamente palloso, o peggio, deludente.

E qui la critica a sbracciarsi: "un film sui piaceri della vita" (o come ridurre i piaceri della vita a due stupide dipendenze, peraltro neanche tanto interessanti se paragonate a droga o alcool), "un film minimalista" (eufemismo per nascondere il fatto che il regista non ha nulla da dire), "un film che rappresenta una realtà umana..." (nessuna realtà umana è così banale e scontata come quella del film), "con picchi di surrealismo e momenti veramente spassosi" (assenti entrambi). Se non altro questo film ha tirato fuori il meglio della fantasia cinegiornalistica.

Un'ottima pellicola per finti intenditori dall'occhiale a fondo di bottiglia, per radical chic che gongolano davanti al bianco & nero (molto retrò ma in questo caso un po' troppo fuori luogo, quasi kitsch) e per giovani cineasti velleitari dal cervello vuoto come la cassa delle offerte. Viene da chiedersi se la stessa sceneggiatura diretta da un regista qualunque, interpretata da attori semisconosciuti, avrebbe avuto lo stesso successo risalto nel panormana cinematografico internazionale. Io, per mia modesta opinione, penso di no. 

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