«Padre Mapple si drizzò e con tono tranquillo e pacatamente autorevole ordinò alla gente sparsa di riunirsi. “Banda a tribordo, di là, accostate a babordo ... e voi di babordo accostate a tribordo! A mezzanave, a mezzanave!”».
Così iniziava il nono capitolo di «Moby Dick», il sermone sul profeta Giona nel ventre della balena, il sermone per antonomasia nella storia della letteratura e pure di quella cinematografica, con tanto di Orson Welles ad impersonare il predicatore nella cappella del baleniere.
Ma qui si trattava di musica - jazz per la precisione - e il sermone lo salmodiava Jimmy Smith, organista, e se c’era uno strumento che ben si adattava agli ambienti chiesastici, questo era prioprio l’organo.
Jimmy Smith non suonava un organo qualunque, ma l’hammond, che non era un semplice strumento musicale ma un vero e proprio pezzo di storia, al punto che quel rocchettaro di Piero Angela gli concesse spazio addirittura in una puntata di Quark, tanto per divulgare badilate di altissima cultura.
Forse non tutti sanno che quell’organo venne progettato dall’ingegnere statunitense Laurens Hammond negli anni Trenta del Novecento per sostituire gli organi a canne che ingombravano le chiese e rubavano spazio alle moltitudini di fedeli; trovò poi larghissima diffusione nelle cappelle militari statunitensi nel corso della la seconda guerra mondiale, e ciò contribuì in modo rilevante al suo successo nell’immediato dopoguerra, in ambito musicale e jazz in particolare.
E se ce n’era uno che poteva fregiarsi del titolo di padrino dell’hammond, quello era senza dubbio Jimmy Smith, che quel rivoluzionario organo elettrico lo approcciò per la prima volta proprio svolgendo il servizio militare in marina in quegli anni guerreschi.
Dopo di lui vennero i rockers, da Booker T. Jones ad Al Kooper, da Brian Auger a Jon Lord, da Rick Wright e Steve Winwood; e pure qualcuno ci perse il senno, come Keith Emerson e Rick Wakeman, e ne fece incolpevole strumento di deliri megalomaniaci.
Ma prima di tutti e sopra tutti c’era Jimmy Smith.
Jimmy però, una volta dismessa la divisa, si diede prima al basso e poi al piano ed all’hammond ci tornò solo alla metà degli anni Cinquanta, quando fu arruolato di nuovo, ma questa volta nelle fila del complesso di tale Don Gandner di stanza a Philadelphia, dove Jimmy si fece ossa e gavetta, prima di mettere in piedi un vero e proprio gruppo, un trio a suo nome.
Gli inizi di quel trio non fruttarono grandi riscontri, se non che, per un paio di settimane, ci passò a suonare un ancora poco conosciuto John Coltrane, che però decise di cambiare aria presto, e chissà come sarebbe andata la storia se invece fosse rimasto.
Ma Jimmy non era tipo da mettersi a frignare sul latte versato e già un anno dopo - siamo nel 1956 - aveva spuntato un contratto con quelli della Blue Note, che avevano attizzato le orecchie ed erano rimasti folgorati da quel suono nuovo del trio, che poi tanto nuovo non era, in fondo era sempre un po’ jazz, un po’ blues, un po’ gospel e un po’ soul; ma era nuovo come suonava quell’organo e come lo suonava Jimmy, e soprattutto, fino ad allora non si era mai visto in giro un gruppo jazz dove a guidare le danze non fossero i fiati; oppure sì, s’era già visto, ma Jimmy ed il suo hammond che recitavano sermoni incandescenti furono comunque una nuova sensazione.
E quando Jimmy attaccava coi suoi sermoni, non c’era verso di tirarlo giù dal pulpito: per cui, chi si stupisce che nel breve volgere di un anno e mezzo i Ramones pubblicarono tre album, consideri che in due anni a nome di Smith ne vennero fuori tredici, diconsi t-r-e-d-i-c-i, cinque nel 1956, addirittura otto nel 1957.
Vero che si trattò massimamente di mettere su disco le sessions del gruppo e che in quei tredici album c’erano una ventina di composizioni autografe di Jimmy, grasso che cola; ma comunque sempre tredici album erano e fecero circolare un bel po’ il nome.
Se poi si parlava di qualità, il discorso prendeva un’altra piega, ovvio, perché non potevi pretendere di far uscire tredici dischi e che tra quelli si trovasse, chessò, l’anticipazione di «Blue Train», giusto per rimettere in ballo il Coltrane che aveva preso altre strade.
Per cui, avesse chiuso dopo quei tredici album, oggi Jimmy Smith non avrebbe alcun posto nella storia del jazz: se ne rese conto lui stesso e decise di cambiare.
E se il 1958 registrò ancora cinque album, i primi due furono i suoi indiscussi capolavori, «House Party» e soprattutto «The Sermon!».
«The Sermon!», con tanto di punto esclamativo, allineava tre brani - due dei quali autografati da Jimmy - ma passò alla storia per il primo ed omonimo, che erano poco più di venti minuti di matrice blues in cui l’hammond di Smith e la batteria di Art Blakey martellavano un riff basico inarrestabile ed irresistibile mentre i solisti da par loro davano fuoco alle polveri in un clima ad altissima tensione, con tanto di citazione finale per la «Walkin’» di Miles Davis, fuori da nemmeno un anno.
Anche perché i solisti erano sodali con le spalle larghe così, come il chitarrista Kenny Burrell, il trombettista Lee Morgan ed i sassofonisti Lou Donaldson e George Coleman (in «J.O.S.»), ed insieme a Jimmy diedero vita ad un disco travolgente per ritmo e passione.
Poi, se siete convinti che il jazz non sia roba per rocchettari, chiedete ad Alvin Lee e Chick Churchill, che suonavano nei Ten Years After, a chi pensassero componendo e suonando «Adventures of a Young Organ».
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