Dopo la tragica morte dei genitori in un incendio, il quattordicenne Richard Elauved viene mandato a vivere con gli zii nella remota cittadina di Ballantyne, guadagnandosi tra i nuovi compagni di scuola la reputazione di asociale ed emarginato.
Così, quando uno studente di nome Tom scompare sotto i suoi occhi, nessuno crede alla sua versione dei fatti: è stata la cabina telefonica ai margini del bosco a risucchiarlo nel ricevitore facendolo svanire nel nulla. L’unica a dargli retta è Karen, una ragazza che incoraggia Richard a seguire gli indizi su cui la polizia si rifiuta di indagare.
Quando, poco dopo, un altro ragazzo sparisce, Richard dovrà dimostrare la sua innocenza e fare i conti con la magia oscura che avvolge Ballantyne e ne minaccia la distruzione.
Il romanzo di Nesbø — che si divide, sia di fatto che di gusto, in tre macro-capitoli — parte nel peggiori dei modi, migliorando decisamente a metà dell’opera per poi tracollare vertiginosamente sul finire.
Purtroppo quello che leggiamo non trasmette nulla di nuovo all’immaginazione: le dinamiche che si svolgono nelle prime pagine potrebbero benissimo essere ambientate nella Hawkings di Stranger Things, così come nell’Ohio di Super 8. La situazione adolescenziale del protagonista, focalizzato sul farsi accettare dai nuovi compagni e comprendere dalla cotta di turno (Karen), nascondendo la sua forte timidezza e sociopatia, si intervalla ad immaginari macabri che avrebbero potuto rendere meglio l’idea se fossero stati gli unici argomenti ad essere trattati dall’autore.
La casa delle tenebre è il primo lavoro di Nesbø che leggo, ma devo ammettere che non ne sono rimasto molto colpito. Si nota come lo stile di scrittura sia proprio di un bestseller, dato che scorre fluido e mai annoia la lettura. Tuttavia ho trovato non a livello la prima e la terza parte, chiedendomi quanto di più avrei potuto apprezzare l’opera se il racconto fosse stato tutto come la seconda.
Dell’opera do una valutazione media poiché a salvare personaggi, ambientazioni, comportamenti e dialoghi da cliché c’è sicuramente l’originalità della trama. Come detto sopra, la giustificazione del finale risulta una scelta pessima dell’autore, come se fosse stata presa in quattro e quattr’otto per concludere il romanzo.
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