Quando si è bambini, ogni cosa è limpida.
Poi si diventa adulti, e il sole di quella purezza tramonta, scomparendo oltre l’orizzonte e affondando così in acque buie.
Si diventa ciechi a ciò che c’è dentro; il nostro occhio nascosto si offusca nell’esatto momento in cui l’interiore si infrange violentemente sugli scogli della “realtà oggettiva”.
“Sei diventato un uomo” ti dicono.
Non ne sono poi tanto sicuro.
“The dream is gone, the child is grow” cantavano I Pink Floyd, quando il loro sogno era ormai sbiadito.
Succede che quella candidità viene riassorbita nel nucleo del nostro essere, anche se i suoi echi torneranno spesso a ribalzare lungo le nostre pareti interiori.
Di quel delicato e puro cristallo, che era la nostra dimensione intima, resta solo qualche scheggia sparsa, a risplendere timida nel nostro buio; proprio lì, dove quel giorno, da bambini, abbiamo avuto l’accortezza di seppellirla, con le mani tremanti per la paura.
Non paura della morte, perché quella appartiene all’adulto: il bambino ne è impermeabile. Piuttosto il cieco terrore dell’atrofizzazione del cuore, la serpeggiante inquietudine che un giorno saremmo diventati incapaci di discernere quello che suona vero nell’apparenza delle parole da quello che lo è veramente.
Seppelliamo dunque il nostro tesoro in un angolo nascosto del petto, con religiosa diligenza, ben accorti a non farci scoprire. Lo nascondiamo in un anfratto in ombra, dove l’occhio miope degli adulti non riuscirà mai a scovarlo con l’intento di distruggerlo.
Lo facciamo per salvare qualcosa di autentico.
Poi cresciamo, e quasi ce ne dimentichiamo, di quel piccolo tesoro…su quel sacro terreno, nascosto sul fondale della nostra coscienza, ogni giorno passa la quotidianità anestetizzante, il maledetto treno che ci porta a lavoro con le sue stridenti ruote metalliche. Le stronzate propinate dal televisore acceso mentre mangiamo vi sedimentano sopra. E, allora, noi, di quel tesoro non ne parliamo…Mai.
Perché l’oralità ne profanerebbe il significato, facendo sbiadire la vividezza di quella stella, come quando la notte degrada nel giorno.
Ma questi frammenti del diamante, queste stelle mute, queste preziose briciole di verità vibranti di simboli, ci guidano e ci rinfrancano nei momenti più neri: la loro tremola fiamma genera un’alone di luce nel buio della menzogna che ci è stata raccontata con chirurgica freddezza e che noi, tristemente, abbiamo finito per raccontare automaticamente a noi stessi.
Finché un giorno non ci capita di stare da soli a riflettere e, fulminati da un attimo di lucidità, cerchiamo di guardare oltre la sottile membrana dei ricordi, di penetrare quella fragile superficie che separa questi ultimi dall’idea “oggettiva” che ci siamo fatti del passato. La nostra sete è di ricercare le sensazioni, il sapore di quei tempi…
E lì, dove quelle lucciole luminose, gli ultimi brandelli di autenticità, continuano a spandere la loro luce nel buio, come i pesci che vivono nelle abissali profondità di certi mari, proviamo nostalgia per tutto quello che avrebbe potuto essere e alla fine non è stato.
Siamo forse destinati a un cammino inverso a quello delle farfalle? Nascere capaci di volare, capaci di cavalcare arcobaleni e di tingerci delle loro sfumature grazie alle nostre caleidoscopiche ali, per poi rinchiuderci da soli in un bozzolo, dove le nostre ali rattrappiscono al buio, fino a quando non ci trasformiamo in larve?
Possibile che la vita sia un libro dal magnifico prologo, dal deludente sviluppo e dall’orrido finale? Ma poi ci torna alla mente un lontano eco: una volta quel finale ci piaceva…Anzi, più che piacerci, la morte ci sembrava elevare e suggellare il senso di tutta l’esistenza. Cos’è successo da allora? Cosa ci ha fatto cambiare idea, nel frattempo? Da dove proviene quell’insano terrore?
Dai maledetti treni sguinzagliati come cani da caccia per azzannare il futuro e ridurlo a un’insulsa celebrazione di un’usurata routine?
Se il momento è di quelli buoni, e ci sentiamo coraggiosi, ricordiamo com amarezza che il significato del cosmo, una volta, per noi, è stato qualcosa di tangibile; che il vero per noi esisteva, un tempo; e che forse dopotutto esiste ancora, anche se abbiamo scordato come riconoscerlo. E la speranza che fiorisce da questo pensiero è che il vero che avevamo dentro, quel cordone ombelicale che ci legava al fluire dell’universo, prima di venir brutalmente strappato via dai predicatori di oggettività in pillole, ha forse lasciato un seme. E che (chissà), un giorno, quel piccolo seme sboccerà in germoglio; e, anche se abbiamo dimenticato per tanto tempo, quel fatidico giorno, finalmente, ricorderemo.
Credo che il primo viaggio in Portogallo con tutta la famiglia avvenne nel 98; in quel periodo ero ancora un ragazzino, e il ricordo di quell’estate digrada in quello delle estati successive. Ma ricordo bene come mi colpì quel territorio inesplorato, tremante di una verginità tanto esile quanto pregna di primordialità. A quell’epoca, infatti, il Portogallo era praticamente escluso dalle mappe dei turisti: una volta mia madre, all’aeroporto di Lisbona, espresse la sua preoccupazione per gli attentati aerei al banco del check-in. L’addetto alzò le sopracciglia e le rispose che non doveva temere nulla: “Il Portogallo non lo conosce nessuno e non ci viene nessuno”, le disse.
Difatti, almeno fino alla prima metà degli anni 2000, era ben poco considerato, in Europa, come meta vacanziera.
Lisbona era (ed è tutt’oggi) una delle più belle a stravaganti città che io abbia mai visitato, con le sue ripidissime salite e discese, binari di montagne russe in un luna park abbandonato; le sue serpeggianti vie, vene pulsanti nel cuore della città, talmente strizzate tra i palazzi che bisognava rallentare quando c’era una macchina proveniente dal senso opposto. Mentre i tipici tram gialli scorrazzavano su e giù, potevi avvertire l’aroma dell’oceano, che dal porto veniva trasportato dal vento in tutta la città.
Le sue caratteristiche casette multicolore erano tappezzate da migliaia di azulejos (antiche mattonelle dipinte a mano). Queste sembravano brillare come coriandoli sgranati nella costante brezza fresca, che rendeva impossibile percepire il calore del sole anche se erano le due di un pomeriggio d’Agosto. Come dimenticare le costanti zaffate fetide provenienti dalle fogne, che dopo una settimana il tuo naso già faceva fatica a distinguere… e la luce, diamine, la luce del sole! Scintillava bianca e abbacinante come quella del paradiso, un sfavillio unico, come non ne ho mai visti da nessun’altra parte. Le mille botteghe artigianali, i sarti che ti facevano i vestiti su misura, i mercatini all’aperto che vendevano di tutto, non la soliti oggetti inutili e vecchi, ma persino anticaglie vere e proprie.
E le mille tascas, ristorantini tipici che servivano (dopo un’ora e mezzo di attesa) cibo casareccio, dal sapore ancestrale e contadino (mio padre diceva sempre che i sapori erano così autentici da ricordargli quelli del cibo italiano degli anni 50). Portate talmente abbondanti che era difficile arrivare alla fine, pesce di una freschezza e di un gusto che qui in Italia anche all’epoca ce lo sognavamo, carne tanto morbida che si scioglieva in bocca, insalata di pomodori e cipolle (una varietà di cipolle dal sapore così delicato, dolce e rinfrescante, da sembrare frutta), col sale grosso sopra. Pollo cotto alla brace, sui tetti all’ultimo piano del palazzo… olive con l’aglio, burro salato, prosciutto crudo, formaggi freschi, salsine, vari tipi di pâté, e tutto quello che ti portavano gratis come entrata per ingannare le ere che ci mettevano a servirti. E poi i dolci: mousse al cioccolato, al maracuja, al mango, cheesecakes…. E spendevi poche mille lire per una cena completa.
La natura era ed è soverchiante. Come non ricordare le spiagge di sabbia fina e chiara, le cui lingue si dipanavano sterminate; quelle spiagge che poi si contraevano con la marea, come organi giganteschi, rivelando paesaggi lunari di centinaia di metri. Le onde altissime, che solo i migliori surfisti riuscivano a cavalcare al galoppo, senza venirne travolti e finire sfranti sulla spiaggia, con un pugno di sabbia in bocca e un litro di acqua salata nella pancia; la saliva rigenerante dell’oceano, talmente gelida da bloccarti l’aria nei polmoni e cristallizzarti il sangue nelle vene; le intricate e impenetrabili foreste di sugari e eucalipti…
Insomma, il Portogallo all’epoca era l’ultimo avamposto del vero: il capitalismo e i suoi ritmi frenetici erano sconosciuti e disprezzati dalla gente del posto, ancora ancorata a un mitico passato dai tratti essenziali. La gente era riservata, e guardava i turisti come fossero pericolosi alieni…e col senno di poi, non posso negare che avessero perfettamente ragione; e che, anzi, avrebbero dovuto cacciarci tutti a suon di calci.
Il tempo, lì, era qualcosa che ancora esisteva, piuttosto che qualcosa da occupare febbrilmente e a tutti i costi, strozzato tra un’impegno e l’altro: vi era tempo per camminare, per osservare, per meditare, per apprezzare la bellezza dell’esistenza. Che la vita va sorseggiata con lentezza l’ho imparato da loro…
…E poi c’era la musica; il caratteristico fado, ma anche cantautori e chitarristi che si esibivano nelle strade, fuori dai caffè… e che spesso non si facevano scrupoli a sedersi nelle tascas e suonare, accontentandosi delle poche monetine (ed erano davvero poche) che i clienti elargivano pigramente, coi movimenti rallentati da un pasto enormemente abbondante o ancora nervosi per la lunga attesa che li separava dal pasto.
Fu in una di queste occasioni che avemmo la fortuna di ascoltare Joao Afonso. Era un cantautore nato a Laurenco Marques, in Mozambico: lì aveva vissuto i suoi primi tredici anni. Nipote di Jose Afonso, fondamentale cantautore antifascista degli anni 70 che ebbe un ruolo chiave nel crollo del regime di Salazar, la sua musica ne era influenzata solo marginalmente. Perché Joao, negli anni vissuti nelle colonie, aveva assorbito soprattutto le sonorità della musica africana, e solo secondariamente quelle della musica popolare portoghese. Se ne stava seduto su una sedia, all’aperto, in mezzo ai tavolini del ristorante, con la chitarra in braccio, senza microfono. Timido, riservato, concentrato sulla sua musica, continuava a pizzicare le corde della chitarra, mentre intorno a lui il brusio si abbassava progressivamente, fino a diventare impercettibile come il tenue lucore aranciato delle candele.
Limpida, l’anima di Joao sfolgorava trasparente come quella di qualcuno che non si è mai avventurato oltre i confini sconfinati dell’era infantile. Alla fine dello spettacolo, mio padre era talmente entusiasta che si comprò il disco; e, per i successivi dieci anni, ogni volta che tornavamo in Portogallo, non usciva mai dallo stereo. Spesso capitava di sentirlo anche a casa, in Italia: ma non era la stessa cosa.
Tutte le canzoni di quel disco, uscito nell’ormai lontano ’97, sono state scritte da Joao; all’arrangiamento e all’esecuzione strumentale - eccetto la chitarra acustica, che è suonata da Joao - ci ha pensato Júlio Pereira, storico compositore, multi-strumentista e produttore lisboeta.
Tutti i brani della prima opera solista di Joao sono memorabili, a dire la verità, ma mi accontenterò di tinteggiare con poche parole i miei preferiti….
“Carteiro em Bicicleta”, è di una tenerezza toccante, una sorta di ninna nanna sorretta dalle carezze gentili della chitarra acustica.
“A Sesta”, invece, mostra il lato più giocoso e vivace: accompagnato sempre dalla chitarra, con l’aggiunta di un candido pianoforte, di un caldo coro femminile e di un ritmo percussivo africaneggiante, Joao fotografa lo spirito allegro di una nazione… e di un’epoca che si è dissolta.
“Fugir Com O Cientista” è di una bellezza lancinante: la chitarra scolpisce una melodia trascendente, e la voce di Joao si libra in un cantato melodioso affatto scontato. Nel mentre, le tastiere dipingono un riff ascendente da far invidia ai grandi nomi della musica popolare elettronica. Il brano è un connubio agrodolce tra la malinconia fanciullesca e la posata serenità di un saggio alla fine dei suoi giorni.
L’incanto di “Entre Sodoma e Gomorra” è assoluto: vocalizzi senza parole, semplici “Nena-ninena-nine-ninani-nano” aprono il pezzo. Il piano cristallino, che si snoda sinuoso tra la chitarra e il cantato, prepara il terreno per l’entrata del coro femminile, che corona la corolla di questo aggraziato fiore con petali di note sublimi.
“Na Machamba” è invece un viaggio nel cuore puro del continente africano, che i tentacoli delle multinazionali occidentali non sono ancora riusciti a scalfire. Il brano viene introdotto da un vagito ancestrale, eseguito da una cantante (sicuramente) di colore. Esso si trasforma poi in una glorificazione delle piccole cose, con tanto di accompagnamento strumentale mozambicano, mentre il nostro continua a ripetere una primordiale melodia, sempre immerso in un’estasi allegro-nostalgica.
“Com A Minha Toada” ha un tema travolgente, una giostra che, una volta salitici sopra, fa sfumare la realtà in macchie astratte di vividi colori. intriso di passione e scintillante di energia positiva, anche questo brano è impregnato dall’evocativo aroma della musica proveniente dalle colonie africane.
Ogni volta che riascolto questo disco, antichi stalattiti riemergono silenziose dall’oceano scuro che ha sommerso la mia memoria; e, nonostante l’abisso sia ancora presente, i tic tac degli orologi si zittiscono. Molte ere sono passate, dai tempi della scoperta di quella penisola e di quel disco. Molte cose sono cambiate…
Recentemente, con l’esplosione dei voli low-cost, tutto è colato a picco: ormai la globalizzazione ha distrutto quasi tutto ciò che di genuino rimaneva in questo splendido paese. Le botteghe artigianali, i negozi nostalgia, la qualità eccelsa e i prezzi risibili dei ristoranti, le spiagge deserte, i vestiti fatti su misura dai sarti, i venditori ambulanti che ricavavano collanine scolpendo con i loro coltelli le friabili pietre della spiaggia: tutto esploso nel nulla come una bolla di sapone.
Per la strada si sente parlare più italiano che portoghese, a seguito dell'invasione di pensionati (e non solo) che, attratti dal basso costo della vita, vi si sono trasferiti.
E Joao? Continua a esibirsi, a vagare per le viuzze della città: il suo cuore, come il mio, è intrappolato nel dedalo reticolato di quelle vie.
Forse sa che, dopotutto, qualcosa è rimasto: quelle piccole schegge stellate che anche io porto ancora nel petto, ormai fuse indissolubilmente nella materia caramellata della memoria. Lì, i profumi e i fotogrammi sparsi si avvitano in spirali e, nei momenti giusti, mi è possibile librarmi sulle ali sottili della memoria. Staccarmi dai binari del vero oggettivo, per venire risucchiato ancora una volta dentro ai gorghi luminosi dell’origine.
E allora metto su questo disco: ma quasi mai più di una volta l’anno, perché altrimenti, a quegli aromi e a quelle immagini, si sovrapporrebbe la grigia patina del presente; e allora la piccola fiamma che fa ardere quelle stelle, quelle preziose schegge di diamante, tentennerebbe e soffocherebbe. Gli echi dell’essenziale andrebbero così perduti, e la notte sfumerebbe in un giorno senza alba alcuna.
Ed è l’alba l’unico momento in cui si è ancora infanti, e l’ipotesi del tramonto e della notte non rimescola angoscia nel plesso.
In cui quelle stelle ancora bruciano.
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