L’unica cravatta che ho mai posseduto è quella che ho indossato per il mio matrimonio. E’ che odio le divise, come le bandiere e le religioni.
Questo non dice chi sono, ma un po’ inquadra il personaggio. Insomma, io non sono mai entrato – né credo mai entrerò (anche se “mai dire mai”) – in uno di quei locali dove si ballano musiche latinoamericane e balli di gruppo. Non ho niente contro quelli che ci vanno, è come con i ristoranti vegetariani: non ci vado e basta; e per anni mi sono rifiutato di comprare un libro di cui avessero parlato in tv o un disco che avessi ascoltato alla radio.
Un vero connaisseur, occhiuto difensore del buon gusto: mai vedere un film che è in classifica al botteghino.
Un moralizzatore: mai comprare un giornale sportivo.
Un minoritario per scelta.
Un habitué della nicchia.
Un coglione.
Per fortuna che nella vita si fanno incontri.
“E’ come se uno non ascoltasse De Andrè perché fa lo stesso genere musicale di Albano” – mi disse osservando il mio disappunto mentre mi porgeva un cd dei “Los Van Van” – “Quale dei batteristi che apprezzi tanto sarebbe capace di suonare questo ritmo?” e poi si mise a ballare. Sarà che l’estate era appena incominciata, sarà che le sue gambe sembravano non finire mai, sarà che il rum era buono e tanto, ma io un ritmo così non lo avevo mai “sentito”.
Maite. Un sogno di caffellatte con gli occhi di cioccolata, neri come la notte.
Mi spiegò che “il salsa” è nato a New York da padre cubano e madre portoricana, che il nome vuol dire “mescolanza”, “intruglio”, che quel padre cubano è il “son” a sua volta figlio dei neri africani ex schiavi e dei creoli, mezzi indios e mezzi spagnoli. Come il blues, il jazz, il gospel? No, i neri cubani erano più liberi ed integrati , blues, jazz e gospel ti facevano ancora sentire il suono ed il peso delle catene. E mi parlò di Antonio Maceo Grajales il “Titano di Bronzo”, il primo, grande capo rivoluzionario di colore.
“Fate i fighetti con la musica che i bianchi hanno rubato ai neri” e mi spiegò che questa è musica “nera”, che solo il juju o il yoruba sono più neri di così, che infatti ci sono meravigliosi salseri africani.
Poi mi disse:”ascolti solo musica triste. O triste o arrabbiata. Ma che motivo hai di essere così triste o arrabbiato?” e mi guardava come si guarda un bambino. Ma quella triste era lei: pensava alla sua terra dove la gente, quando si incontra per strada, si sorride; mentre qui erano tutti nemici e tutti arrabbiati, affaccendati e nervosi, tutti pazzi ai suoi occhi.
Un nonno tedesco, madre nera come la pece, padre mulatto e un po’ di sangue canadese da qualche parte: lei “era” il salsa. Ne incarnava lo spirito ed il ritmo, la meravigliosa mescolanza e la gioia di vivere nonostante tutto.
E mi insegnò più cose in pochi giorni che un mucchio di quei libri che mi ostinavo a leggere. Cercò anche di insegnarmi a ballare, perché per fare buon sesso devi saper ballare. E io ascoltavo e guardavo, mica solo perché sono un porco, lei piaceva a tutti: uomini, donne, gatti, tavolini e tutto quello che c’è in mezzo.
Poi mi regalò questo disco. Perché, disse: “questo lo puoi capire, comincia da questo”.
Ed è un disco bellissimo. Joe Bataan, l’inventore del “salsoul”, una fusione di soul e salsa incredibile, concepita da questo genio folle, figlio di un filippino e di una nera americana che ha passato la maggior parte della sua gioventù in riformatorio e che oggi spende quello che la Musica gli ha dato per aiutare i ragazzi di quel riformatorio che gli ha fatto da casa per tanto tempo. Ha inciso 16 dischi, tutti di straordinario livello, ma se si vuole andare sul sicuro basta cercare quelli che ha inciso per la Fania, con quelli si va sempre sul sicuro. “Saint Latin's Day Massacre” è del ’72 e suona ancora caldo, sexy e sleazy esattamente come quando è uscito; dentro ci sono cose come “I Wish You Love, part 1 &2” o “El Regreso” o un’incredibile cover di “Shaft” che portano il sole del caribe ad Harlem. Insomma lo devi ascoltare per capire di cosa parlo.
Dico solo che da questa roba prenderanno spunto, qualche anno dopo, per inventare la Disco; musica fatta da neri, portoricani e gay e, per questo, odiata da critica e pubblico. Da quelli che credevano di saperne ed invece erano solo, più o meno consapevolmente, bacchettoni e razzisti. E sbagliavano perché quella roba è diventata dance, poi “pump up the volume”, poi techno, poi Warp e poi un sacco di roba che oggi fa tanto figo ascoltare.
E insomma, quando ascoltate la vostra roba da bianchi immusoniti ed incazzati, pensate che quello che ci tiene lontani da questa musica è il fatto che non ne sopportiamo la carnale vitalità, la gioia animale che deve – con tutta la forza che abbiamo – essere tenuta a bada mentre facciamo le “cose serie”.
E Maite?
Chissà dov’è! Forse sarà tornata alla sua terra o forse avrà trovato qualcuno che sa ballare meglio di me.
(Dedicato a tutti quei rocker intransigenti, come ero io, che questa roba non se la filerebbero neanche di striscio.)
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