Bonamassa è un coverizzatore compulsivo. Tant’è che pure a questo quarto album di carriera, datato 2004, impone come titolo una delle cover ivi contenute, la più prestigiosa e riuscita. Trattasi di un mezzo capolavoro a firma Steve Winwood che a suo tempo (1969) fece d’apertura al primo ed unico album dei Blind Faith, effimero super gruppo del rosso di Birmingham che, in temporanea pausa Traffic, aveva fatto comunella con le fumantine star Clapton e Baker ed il tranquillo mediano di spinta Rich Grech, per poi lasciar perdere al ritorno della prima tournée, causa la troppa fattanza collettiva. Nell’originale vi è un lungo duello di chitarre fra Clapton e Winwood… qui Bonamassa provvede invece da solo, semplicemente cambiando chitarra e traccia del nastro. Ma la canzone era, e sempre sarà, pregevole soprattutto per il suo ardito mix fra un riff lungo e legnoso, definitivamente memorabile, contrapposto ad un ritornello arabescato che scivola verso sorprendenti tonalità, quasi stranianti: un vero simbolo della capacità compositiva del precoce Steve, all’epoca dei Blind Faith ancor ventenne. Bonamassa ne dà una versione riguardosa, però più robusta e maschia come da suo stile, in definitiva ottima.
La miscela di cover e di originali stavolta dice 4 e 7 rispettivamente. Fra le cover vi è la strasentita “Reconsider Baby” del maestro blues Lowell Fulson, con la quale pure Clapton aveva fatto un giro sul suo celebrato “From The Cradle”. Qui viene tappetizzata d’organo e strutturata smaccatamente in stile “Since I’ve Been Loving You”, il capolavorone degli Zeppelin sul loro terz’album del 1970. Meno nota è “Never Make Your Move Too Soon” dell’immancabile B.B.King, sulla quale comunque Joe si premura di farci sapere, dalle note di copertina, che la sua versione si ispira al suono del secondo Jeff Beck Group, quello d’inizio settanta… come dire con un pizzicone di funky alla Steve Wonder. Il super nerd replica imperterrito informandoci che la presente versione di “Travellin’ South” del grintoso Albert Collins è resa in stile primi Ten Years After, giacché da loro l’aveva vista e sentita suonare ricavandone sommo piacere: vero… la chitarra viaggia un po’ in stile “I’m Going Home”, stoppata e serrata.
Poi ci sono gli originali a firma Bonamassa più eventuali collaboratori, ed è qui che il disco assume logicamente, almeno a mio vedere, maggiore interesse. Non sono tutti fantastici, ma un paio si e mi riferisco ad esempio ad “Around the Bend” che ha un che di irlandese, o di scozzese, ed evoca emozionalmente le colline brulle e il verde infinito di quelle lande. Oppure “When She Dances”, un esercizio vagamente in stile Dire Straits ma soprattutto una grande, malinconica e sentimentale atmosfera. Questi ultimi sono pezzi che tolgono Joe dal rock blues di stretta osservanza, diversificano la sua proposta e tolgono la stucchevolezza ai suoi dischi. Quella che traspare ad esempio su “The River”, del tutto debitrice come struttura ed arrangiamento alla monumentale “When the Levee Braks”, a cui ovviamente non allaccia neanche le scarpe.
Con lo stesso ritmo di batteria, ma al doppio della velocità, vi è poi “Revenge of the 10 Gallon Hat”, un rag virtuosistico nel quale Bonamassa viaggia agilissimo da countryman provetto, che pare Albert Lee. Chi è Albert Lee? Uno da panico! A vederlo suonare dal vivo viene lo spavento, ad essere chitarristi pure la depressione. Sempre in ambito un po’ virtuosistico, ma sempre colla dovuta passione, vi è anche la finale strumentale “Faux Mantini”: un’acustica a destra, una a sinistra ad inseguirsi, accompagnarsi ed andare ogni tanto all’unisono, bravamente.
Uno dei migliori lavori del chitarrista dello stato di New York. “Sporcato” dal solito, reiterato (e onestamente dichiarato) appoggiarsi ai suoi tanti idoli. Io lo perdono: la voglia, l’energia, la progettualità sono veementi e sinceri. Quattro stelle e mezza.
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