D'accordo, siamo nel ventennale della morte di De André e personalmente comincio già ad averne abbastanza, anche se non siamo ancora arrivati a metà gennaio. Cosa potrebbe succedere dunque se mi dovesse capitare sotto le mani un disco che alla fonte di Faber si abbevera, e lo elegge a santino cui chiedere idee e ispirazione?
Da qualche parte ho letto che non abbiamo bisogno di santini, ma di eredi. Ora, non credo che Giordano e Simone, il duo trentino che imbastisce le acustiche trame di questa attenta opera prima, potrebbero mai stare comodi in questi panni. Troppe le cose da dire e le idee da comunicare, troppa la sincera passione nel confrontarsi sui temi attuali e per questo particolarmente spinosi, con la genuina curiosità di capire - loro artisti, noi pubblico - dove stiamo andando. Musicalmente e culturalmente. E però è altrettanto innegabile che lo stile, la musicalità, alcune risoluzioni letterarie, persino il modo di cantare a tratti lo ricordano piacevolmente, soprattutto quando prendono le mosse dalla "Storia di un Impiegato" e vanno a lambire le vicende di vita metafisica di "Vol. 8".
Nonostante l'attualità dei temi, vengo a sapere che le canzoni sono state composte a Berlino, per la maggior parte tra il 2016 e il 2017. Ed effettivamente un pezzo come il Tecnocrate Europeo, il più riuscito e di cui si trova anche una bella esibizione sul tubo, non poteva essere stato scritto altro che nella capitale teutonica, anche se l'aria mediterranea che soffia qua e là lo colloca in una terra di confine difficile da definire, tra un Capossela e un Pino Daniele trapiantato a squadrare blues sotto i resti del muro.
Simone è un ottimo chitarrista e le sue pennellate si districano sicure tra jazz e blues, lontane anni luce da quelle fanfaronate pseudoamericane che ancora infestano la formazione di molti giovani chitarristi italiani. Il suo tocco misurato e cristallino serve solamente ad arricchire, e brani come la sua Terre di Mare, Calze Nere, La mia strada e la chiusura di Itaca ne beneficiano oltre misura. Un disco che per ora non ha avuto la visibilità che merita, senz'altro penalizzato dalla scelta di uno stile demodé e dalla stessa provenienza geografica del gruppo. È da tempo ormai che il Trentino soffre di provincialismo e di un latente complesso di inferiorità quando si tratta di confrontarsi con le altre realtà italiane; ma a conti fatti il JCD ne ribalta i presupposti, e fa di questi difetti il principale punto di forza del disco. Quasi come se lo spirito del vecchio rock di frontiera - il country di Willie Nelson, il rock desertico dei Thin White Rope - fosse tradotto da due ragazzi cresciuti in una realtà a turno dimenticata e invidiata come il Trentino. Troppo a nord per essere rock mediterraneo, troppo a sud per accettare quello mitteleuropeo.
C'è tanto da ascoltare e ancora di più da riflettere dopo aver dato attenzione a questo primo tentativo. Personalmente, resto curiosamente alla finestra, in attesa del prossimo passo.
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