Come la canzone, «Troppo cerebrale…», inizialmente questa serie tv può risultare distante, algida, un trattato di psicologia piuttosto che una storia davvero avvincente. La narrazione vede infatti due agenti dell’Fbi, il giovane e guizzante Holden Ford e l’esperto, cinico Bill Tench interrogare alcuni dei più efferati killer del tempo (siamo nel 1977) al fine di scardinarne l’impenetrabile follia, trovare la logica interna ad azioni che verrebbero normalmente liquidate come «pura follia».

L’argomento è interessantissimo, su questo non ci piove, ma potrebbe sembrare in una prima fase troppo intellettuale, accademico. I personaggi non sembrano propriamente irresistibili, quasi una riedizione rarefatta dei due colleghi agli antipodi di True Detective. Ma la qualità, alta, della serie si rivela poco alla volta col passare degli episodi, quando le personalità, finemente sfumate, di Holden, Tench e degli altri emergono dal fondale. Solo a quel punto si può accogliere il serial come un’opera di primissimo piano.

Non basta infatti riprodurre in forma visiva degli interrogatori interessanti per fare grande televisione (o cinema). Non bastano le parole, serve la potenza della messa in scena, l’immedesimazione nei personaggi, la lusinga estetica. E in un contesto così verbosamente strutturato (e a tratti ingombrante), questi elementi rischiano di essere schiacciati. Invece è solo una questione di gradualità: come negli interrogatori sagaci dei due colleghi, la serie sviluppa lentamente le sue trame, le fa sbocciare al rallentatore, perché nel frattempo deve portare avanti una mole di contenuti, personaggi secondari e digressioni narrative davvero notevole.

Alla fine queste ramificazioni, che sono in un primo momento preponderanti, lasciano spazio al troncone centrale della vicenda: i protagonisti e le loro vite, i contrasti interni all’Fbi, i limiti etici che dovrebbero esistere anche quando si interroga un serial killer. Ed è lì che emerge la forza della scrittura degli sceneggiatori, la bravura degli attori, la cura dei registi. La mano di David Fincher si nota non poco nei primi e ultimi due episodi: la compostezza e la forza algida della sua visione sono nitide. Pur restando questo un lavoro poco “visivo”. Ed è una scelta coraggiosa, da rispettare: sarebbe stato facile abusare dei flashback quando gli assassini raccontano le loro efferatezze, ma avrebbe tradito il senso ultimo della serie e del libro: il soggetto infatti non è dato dagli omicidi in sé, ma dal modo in cui gli agenti riescono a estrapolare frammenti di psiche dalle parole dei carcerati o dei sospetti. E da come questa pratica alteri i loro comportamenti, incida indelebilmente sulle loro vite, nel bene e soprattutto nel male.

Altro rischio non da poco è la pressoché totale assenza di suspense: non ci sono grandi misteri, i colpevoli sono quasi sempre ben chiari. Si gioca tutto sulle modalità con cui vengono smascherati oppure denudati nella loro psicologia deviata. Uno spettatore distratto potrebbe lamentarsi del fatto che si capisca subito la colpevolezza degli individui torchiati. Certo, ma un conto è capirlo per intuito, un altro è provarlo, piegare l’interrogato fino a fargli sputare la tanto agognata confessione. Che puntualmente non viene raccontata, perché ciò che conta è l’interrogatorio, il modus operandi.

Particolarmente riuscito il profilo del protagonista Holden, che compie tutto un crescendo di audacia fino a diventare una vera iena degli interrogatori. Bene anche i personaggi complementari, come la psicologa Wendy, che si costringe a un’austera solitudine, o la fidanzata di Holden, Debbie, che puntualmente contrappunta i trionfalismi dell’agente con letture demistificatorie.

Serie come questa fanno riflettere sulla possibilità dei serial televisivi di rendere giustizia a libri particolarmente complessi. Sarebbe stato davvero difficile dare il giusto spazio di approfondimento agli interrogatori di Holden e Tench all’interno di un minutaggio da film. Ma sarebbe stato comunque tutto sprecato se fosse mancata un’ossatura centrale solida, che viene data come sempre dai protagonisti, dall’empatia, dalla forza espressiva delle scene. Che resta in questo caso inferiore ad altri lavori per il piccolo schermo, per forza di cose, ma riesce a individuare dei canali estetici più sottili, quasi impercettibili. Ma in un contesto simile, i dettagli sono tutto.

7.5/10

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