Mi corre lungo la schiena la similitudine dell'insolubile interrogativo finale con "Quer pasticciaccio brutto de via Merulana" dell'ingegner Gadda, un malessere a livello plesso solare di un mancamento di micro secondi di stare con "i piedi per terra", una precipitazione da montagne russe di sospensioni di certezze, un senzapancia di non arrivare al bandolo della matassa condita da un'angoscia asettica di un'assenza momentanea del contatto con le menzogne che chiamiamo realtà.
C'è narrazione senza tempo nel film, si può stare nel futuro, nel passato, di qua, di là... È la stessa cosa. L'immediato è la carta da parati dell'albergo fantasma che si scolla facendo quel rumore mellifluo, dove alloggia "lo scrittore" e il suo disagio.
A parte il sangue mica tanto facile degli esordi, i fratelli Coen subito con tutti gli altri film hanno fatto maniera facendo allupare quella massa di radical chic cinefili che hanno adottato situazioni bowlingstiche per riempire le loro vuote estetiche di biennali al nitrato d'argento di una borgata che si specchia raffinata spiandosi col mignolo alzato quando beve il suo thè.
Ma su Barton Fink, assentandosi da questo ammicco innescatosi col pubblico, i fratellini sfoderano un modernariato psichico irraggiungibile all'uopo di strumenti da salotto buono di una borghesia Battiato riverente. "La Cura" che i brothers dipanano non si nasconde dietro luciferine promesse come nel Franco nazionale, che ingannano sfruttando la stimolazione di buoni sentimenti.
Caustica è la resa con quel "fuoco cammina con me" che tutto brucia revisionando financo il sensazionalismo occulto lynchiano. Non parliamo poi della ridicola e sterile scatoletta di Seven con quella faccia comica di Brad Pitt che ce la mette tutta a non essere credibile nella sua disperazione.
Ci sono altre "rotture" di scatole qui. C'è una solitudine lancinante, una solitudine atavica che attraverso accadimenti hollywoodiani ci fa stare contemporaneamente col becco chiuso e a bocca aperta dalla sorpresa rivelata che la collina californiana è stata fatta a immagine e somiglianza del lago di Nemi.
Si manca splendidamente proselitismo da multisala per cinica arrendevolezza nel non proiettare né fine né inizio. C'è sacralità in tutto questo dove furbe scorciatoie sono annullate da quell'aureola deviata di John Goodman che confonde e si tira fuori dall'esser giudicato perché c'è una mistificazione della realtà che non delega l'appoggiarsi della nostra comodità verso concretezze materiali, che si frantumano nella concatenazione di universi che i registi disadombrano da una visione da San Tommaso.
E il tirare la corda sull'incipit del wrestling diventa un affascinante e angoscioso diversivo per proporre lotte interiori verso quelle possessioni che realmente ci atterrano, altro che peccati capitali alla buona e diavoli di cartapesta.
"GUARDATEMI! VI MOSTRERÒ LA VITA DELLA MENTE!"
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