Negli anni ‘50, l’America gestiva il proprio mediocre isterismo con l’automazione del sistema. I fratelli Cohen hanno ripreso questa grinza storica, lo hanno fatto annerendo il bianco sullo schermo… questo “L’uomo che non c’era“, una parabola sui punti morti delle nostre vite. Ed Crane pensa per non parlare, preferisce così l’interiorità al senso comune del conformismo. È un genio della normalità dentro un ex valle verde, un paesaggio privato d’innocenza, dove tutto funziona affinchè la paura serva. Perchè la paura è equilibrio, è tensione senza passione, è un Beethoven sordo e amato da chi comprende i moti della propria anima. Ed Crane è un musico illetterato, pieno d’armonia. Prova quasi un senso di pace nella sua privazione al sogno. Ha fiducia, è convinto che l’America, quel pacifico labirinto, sia appagante… anche quando sbaglia, anche quando frigge un piccolo barbiere con gli ingranaggi della sua autorità morale. È difficile capire se i fratelli Cohen abbiano viaggiato nel tempo o si siano limitati a scrutare gli antefatti dello spazio, di certo hanno compreso quale fosse il metro migliore per misurare quella terra di nessuno all’alba del maccartismo, lo hanno fatto scegliendo il noir. Perché il noir è miele sulla narrazione, è una sorta di esame spirituale di cinema, è la lingua con cui il popolare appare poesia. Inoltre c’è la “Moonlight sonata“ con cui Beethoven diventa il linguaggio per capire l’”Uomo che non c’era“. Anche perché senza di lui il film sarebbe una rappresentazione della vita mortalmente intesa, senza quella virgola che concede l’infinito. L’introspezione poi guida la sinfonia di memorabilia, segni di quel tempo malato di nervi. Cosi suonano i dischi volanti, i racconti sui musi gialli, le dicerie atomiche , le donne represse e ingessate d’infelicità, gli uomini in fuga dal consenso-nenia . Tutto in una consonanza di dissolvenze in nero, di piccoli episodi vissuti e venduti per cinque cent prima di morire. Il piccolo taglio filosofico delle memorie di Ed Crane santifica il disincanto dell’uomo comune, rendendolo obliquo rispetto al retto modo di essere americani nei ’50. Perché l’insignificante barbiere individuo della folla, parafrasando Poe, esce dall’addensamento di colore per fissarsi nel suo bianco e nero fatto di mestizia senza lacrime. Anche se per un momento il treno pare fischiare, per questo Bellucca americano, quando muto nella sua mansione, agita un briciolo di ribellione, incitando il criterio della sua vita a spiegargli quale senso si nasconda nello spuntare zazzere, se quest’ultime inevitabilmente sono destinate a ricrescere, perfino a vincere la morte per un istante più dell’anima. Ma per l’appunto si tratta di un misero sussulto, dove s’alza il livello di guardia dell’istinto, e poi tutto torna silenzioso. Quasi sconvolge questa irreprensibilità che sembra gestita da un essere alieno e che conduce Crane alla sedia elettrica; non v’è una dimensione di gesto inconsueto nel suo modo d’apprendere dispiacere. L’infedeltà, l’omicidio, la condanna a morte paiono non toccargli le corde della vita. Ma forse è solo il piccolo individuo che soffre in silenzio, che rinuncia al sesso per bontà di principio, che sogna il menage familiare perduto e che accetta la morte nella speranza di ritrovarlo. Di fronte all’altrove ignoto si umanizza e scompare. L’impressione di aver assistito alla saga di un invisibile l’ha lo spettatore, improvvisamente incantato da queste memorie eteree che i fratelli Cohen hanno replicato in celluloide. E Billy Bob Torthon ha stilato in questo minuto barbiere. Perché Ed Crane siamo noi quando non ci ascoltiamo e andiamo fissi sui nostri pattini di fumo alla ricerca della soluzione. Che non è ciò che ci manca, ma ciò che siamo. E appena lo scordiamo, svaniamo smettendo d’esserci, anche perchè per gli altri forse non ci siamo mai stati.
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