Dichiarazione d'amore per il mondo dei perdenti e omaggio al cinema noir. Com'ar solito Joel e Ethan Coen in questo indimenticabile "Grande Lebowski" propongono una novella multistrato, godibile a più piani di facezia e di melanconia.
Uscito nel ruggente anno del Titanic, "Il grande Lebowski" narra la storia di uno di (molti di) noi che come me abitava in via Sfiga. Leader della contestazione americana, firmatario della costituente di Port Yuron (la prima, non la seconda), Drugo (Jeff Bridges all'ingrasso) vive evitando il lavoro come la peste, ascoltando gli amati Creedence e giocando a bowling. Accanto ad un uomo così non potevano esserci che le giuste persone "sbagliate": Walter Sobjack (John Goodman, immenso), antipacifista convinto ("una volta ho sguazzato nel pacifismo, MA NON NEL VIETNAM") e Donnie (Steve Buscemi), piccolo amico cardiopatico di professione "zittito" ma miglior giocatore della biglia forata della combriccola. Ricevuta una visita da due scagnozzi payback, che avevano confuso Drugo per un suo facoltoso omonimo, e inzaccherato o' tappeto del Drugo di urina, l'hippie fuori tempo massimo decide di sporgere reclamo al Grande Lebowski in persona. Questi lo maltratta come uno strofinaccio ma Drugo riesce a beffare il tappeto lo stesso e, alla chetichella, s'allontana rinunciando alla fellatio postepay della dolce metà del Le Boschi, tale Bunny, morbida e popputa come si convien ad una cheerleader.
Non si può proprio stare in pace, specie per un pacifista: grazie ad una telefonata del segretar di Leboskio (Philip Seymour Hoffmann, quanto grande sempre è P.S. Hoffmann?), Drughino viene reclutato come detective perché Bunny (non Lake) è scomparsa, forse rapita da nichilisti musicisti, krafwertizzati in Autobahn.
Drughetto affronterà la classica trafila dei detectivi alla Chandler (in fondo il film è ambientato a Los Angeles), con mafiosi del porno (Jackie Treehorn, un Ben Gazzarra, in un cameo immortale), figlie degeneri e artiste del miliarda (splendida Julianne Moore), poliziotti di Malibu incazzati e servi della grana, taxista neri matti Eagles e nichilisti con Flea dei Red Hot Chili Peppers alle calcagna, ‘ncazzati perché non c'eran i soldi...
Il finale sarà una placida vittoria morale del nostro eroe panzuto e dei suoi due... ops ...del suo amico Walter, polacco cattolico ebreo osservante; il rapimento era una crystal ball, il grande Le boschi era un pallone gonfiato. L'unica sfera consistente è il pancione di Maud, in attesa di un piccolo Drugandibus mentre papà continuerà il regime controllato di droche e il regime esagerato di white russian (Kalhua, Vodca, panna liquida, ghiaccio).
Aperta, inframmezzata e chiusa dalla sorniona presenza, ora vocale ora in figura intera del Cowboy Sam Elliott, amante della salsapariglia e della saggezza ("ho sempre avuto un debole per il cowboy come concetto"), la storia del Grande Lebowski offre, come dicevo all'inizio, un mutigodimento. A prima vista è una tenera, divertentissima, amarognola storia di perdenti ai quali è impossibile non volere bene; ambientato negli anni 80, durante la guerra del Golfo (la prima, non la seconda), il film racconta di figuri che in quello scintillante decennio erano fuori uso. Non c'è spazio per chi fricchettonò alla ricerca di conquiste collettive bastate su peace&love; sballoni ma molto consapevoli dei loro intenti e della loro ragione, durante gli anni dell'Occidente da bere, in cui tutti rifluivano nell'Edon reganiano. Scentrati, senza una casa degli ideali (chi randagia, chi si rifugia nel Vietnam, chi pensa solo al bowling), facili prede di diserbanti umani che millantano ricchezze e menano cinico egoismo; figurine dense però di un eroismo e una dirittura morale simili a quella di Philip Marlowe nel regno dei lupi.
E qui il secondo strato: i fratelli Coen seguono, da apollinei postmoderni, le orme dei detectives d'annata dell'hard boiler, soli contro tutti, piegati da un cazzotto ma non spezzati nel'anima. Dei grandi investigatori Drugo ha molto: il drink preferito, l'approccio intuitivo e conseguenti cantonate (memorabile il furto del foglietto sottostate quello dell'appunto del pornografo; in una citazione da "Intrigo Internazionale" fanno emergere dallo smatitamento del Drugo un faceto priapo-scarabocchio) l'apparente amoralità, che cela una morale di ferro, e la pupa del boss (stavolta figlia).
Le battute si sprecano a fiumi ed è difficilissimo, salvo paresi facciale, non ridere: il deragliamento del rottame chiazzato di ruggine di the Dude mentre gli cade il purino in braga, i sogni in fase di forzata incoscienza (tra tutti, immortale Gutterballs, tra coreografie bowling di BusbyBerkleiana memoria, elettricisti volanti e nichilisti cum forbici), il bagno alla marmotta, lo sceneggiatore di "Branded" sottovuoto nel polmone d'acciaio, la distruzione della Corvette, il funerale in the wind, ‘arte vaginale, la marmotta al bagnetto. La colonna sonora è un collage di canzoni e musiche memorabile, una volta tanto funzionale alla storia: da Dylan a Piero Piccioni ("Traffic jam" come musica del porno "via cavo") la catena di sant'Antonio di perle più o meno conosciute, con in top list i Creedence Clearwater Revival, grezzi, spartani e diretti, tutti nel cuore di Drugo.
E i Gypsy Kings a sferragliare con rochi cori la menagrama "Hotel California" durante l'epifania del più indimenticabile dei personaggi di contorno di questo succulento piatto cinematografico: Jesus Quintana (John Turturro, nu babbà), completo da bowling lilla, cunilinguus alla biglia, isteria ispanica.
Non si scherza con Jesus...
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