A seconda di come lo si osserva, l’edificio si mostra un romitaggio montano, uno svettante palazzo barocco, un diamante perfettamente sfaccettato o un intricato castello di carte.

Visto da una certa distanza, con l’orecchio teso, il fine intenditore può dire: «che raffinato passacaglia».

Un tempo, le sgombre stanze che gli scalcinati muri oggi rinserrano, ospitavano un insonne ambasciatore ed un giovane musicista, che il notturno tedio di questi carezzava.

L’aria, che in quelle trenta stanze senza posa transitava, assumeva forma di costellazione.

Il costruttore dell’edificio, che soppesando la propria idea di spazio e di variazione aveva lasciato ai posteri questa sonora levigatezza, non era certo nuovo a questo modo di concepire la visione d’insieme.

Un’anticamera, di nitido splendore ed arcana semplicità, che lasciava —e tuttora lascia— intorno a sé un fremito impalpabile.

In un misurato errare, la passeggiata nel cristallino edificio si fa ben presto percorso labirintico: in ogni stanza, la stessa e non la stessa di quell’anticamera, il gioco di specchi palesa il proprio respiro.

Non è facile seguire il filo che il compositore, come un’ironica Arianna, ha sdipanato. Eppure, tutto suggerisce che questo filo ci sia.

Quella stessa anticamera, la cui fisionomia è ormai familiare a chi, stordito dal dedalico peregrinare, infine vi torna, segna l'uscita dal labirinto ed il suo stesso compimento.

Si ricongiunge con se stessa, l’aria carica di tutte le sue variazioni. Solo allora, l'occhio può cogliere l'intera figura.

«Ora —può dire tra sé e sé il novello Teseo, tornando alfine sui suoi passi— so cos’è il barocco: questo strano senso di vertigine.»

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