Vivere portandosi dietro uno scimmione aggrappato al collo non deve essere affatto comodo, specialmente se il mostro ha il capoccione arruffato e lo sguardo infuocato che possiamo apprezzare in gran parte dei ritratti di Ludwig Van Beethoven. Eppure almeno fino ai quarant'anni Johannes Brahms deve aver provato spesso questa sensazione, dato che qualsiasi suo progetto di opera ambiziosa finiva inevitabilmente per arenarsi di fronte all'inevitabile confronto con quello che era già stato compiuto dal suo titanico predecessore. A ciò sicuramente contribuì anche il suo esagerato senso autocritico, al quale dobbiamo la distruzione di chissà quante opere giovanili, ritenute indegne dall'autore. Neanche le lodi sperticate e retoriche del suo "talent-scout" Robert Schumann ("...egli è tra noi, creatura dal sangue giovane; intorno alla sua culla hanno vegliato le Grazie e gli Eroi..." e via dicendo) sarebbero riuscite ad intaccare la tendenza innata a quelle che all'epoca ancora non si chiamavano "seghe mentali" ma comunque esistevano.
E di capolavori sicuramente ce ne sono a iosa anche nella parte giovanile del suo catalogo, ma in genere si tratta o di deliziose combinazioni cameristiche di pochi strumenti, o di più veementi pagine per pianoforte. Le rare incursioni nella musica vocale quasi sempre rientrano nell'ambito ristretto e intimista dei Lieder.
E poi c'è la grande eccezione, quella che non ti aspetti nel Brahms pre-sinfonico, l'opera fondamentale forse anche più della Prima Sinfonia nella faticosa conquista della fiducia in sé stesso.
E' il Requiem Tedesco Op. 45 (1868), anzi è Un Requiem Tedesco (Ein deutsches Requiem). "Un" e non "il", perché le parole non sono quelle canoniche della tradizionale messa dei defunti, ma versetti presi qua e là dalla Bibbia in base alle esigenze espressive dell'autore, e per di più cantati in tedesco, invece che nell'usuale latino tipico di ogni messa, ivi compresa quella da requiem. Altra anomalia la divisione in sette parti, al posto delle canoniche cinque.Ma come si spiega tutto questo po' po' di rivoluzione da parte del "conservatore" Brahms?
Bè, intanto su questa etichetta, appioppata al compositore amburghese ai suoi tempi, ci sarebbe molto da discutere, ma si finirebbe per uscire dal seminato. Tuttavia quel che conta è che si tratta di una rivoluzione puramente formale: di fatto quest'opera monumentale riesce perfettamente a conciliare rigore contrappuntistico e fantasiosi fremiti romantici, e in questo è tipicamente brahmsiana.
Se dalla forma passiamo al contenuto, la prima cosa che colpisce in questo Requiem anomalo è la prevalenza di un clima consolatorio, di divina pacatezza. Nell'aldilà che Brahms ci prospetta non ci assorderà il fragore teatrale con cui Verdi rappresenta la furiosa incazzatura del Padreterno ("Dies Irae"). E neanche ci si spalancheranno davanti gli abissi con cui Mozart ci mette i brividi nel "Dies Irae", nel "Confutatis" e soprattutto nel "Rex tremendae" (quest'ultimo non a caso usato di recente per introdurre il repellente "Ministro della Paura" impersonato da AntonioAlbanese).
Non è che manchino i momenti inquietanti, ma più che all'aldilà sono legati alla vita terrena e alla sua caducità, perché "tutti i mortali sono come l'erba (...) e l'erba inaridisce" come recitano le parole del secondo movimento, non a caso il più coinvolgente, e per me anche il più ispirato.
Ma andiamo con ordine. Nel primo dei sette tempi ("Beati gli afflitti, perché saranno consolati...") il coro e l'orchestra, con prevalenza degli strumenti dal registro più grave, disegnano melodie degne di una sinfonia romantica, prima soffuse, poi appena più increspate, ma mai impetuose.
E' come un'introduzione che ci porta in un clima di serena speranza, bruscamente spezzata dal già citato secondo tempo, in cui a scandire l'inesorabile scorrere del tempo è il cupo rombo dei timpani. Colpi forti e regolari alternati a lunghe rullate ricordano più il modo in cui viene suonata una moderna batteria, che l'uso moderato, quasi in punta di battente, che di solito si fa di questo strumento nella musica classica. Un ritmo incalzante accompagna una melodia tra le più commoventi dell'intera opera brahmsiana (e non è che si stia parlando di un buontempone); solo verso il finale il coro si scatena in un fugato potente e relativamente gioioso.
Molto inquietante anche il terzo tempo ("Rivelami, Signore, la mia fine..."), sia nell'accorata invocazione iniziale, affidata alla voce del baritono, sostenuta qua e là dal coro, che nel poderoso fugone finale, roba da far resuscitare di gioia il vecchio caro Johann Sebastian Bach, all'epoca quasi dimenticato dai più, ma non certo dal "passatista" Brahms.
Il quarto tempo ("Quanto sono amabili le tue dimore..."), breve corale lievemente agitata nella parte centrale, e il quinto ("Così anche voi siete nella tristezza, ma vi vedrò di nuovo...") , con il celestiale dialogo tra soprano e coro, sono un'ampia oasi di pace che l'ascoltatore può attraversare in perfetta beatitudine, il che per un Requiem è davvero insolito, anche se qualche anno dopo Gabriel Fauré riuscirà a cullarci con quella che da alcuni viene definita una "ninna nanna della morte".
Con il sesto tempo ("Perché non abbiamo quaggiù una città stabile...") si torna a tremare, e stavolta non certo voltandosi indietro verso la vita passata, bensì in trepida attesa del momento in cui suonerà la tromba del giudizio divino, che qui irrompe sotto forma di un ampio e complesso episodio fugato, con il coro in veste di grande protagonista. E' l'unico movimento davvero avvicinabile a quelli canonici del Requiem tradizionale (al "Dies irae"), ed è anche l'unico in cui Brahms sembra abbandonare l'idea di un mondo ultraterreno tutt'altro che terrificante.
A ricondurci nei binari di questa visione provvede il settimo tempo ("Beati fin d'ora i morti...") che chiude il Requiem con una simmetria quasi perfetta, non solo riproponendo la pacatezza del primo tempo, ma recuperandone alla fine anche il motivo dominante, dopo un prolungato e dolcissimo idillio tra coro e orchestra.
Che poi questa iniezione di beatitudine, e per di più in un'opera che tratta pur sempre di morte, ce la regali proprio un musicista tormentato da una sensibilità esagerata, fa parte delle molte contraddizioni che rendono la musica di Brahms così affascinante, pur nella sua complessità. Per poter ascoltare la Prima Sinfonia ci sarebbero voluti ancora cinque anni, ma possiamo ben dire che dopo questo Requiem il fantasma di Beethoven, pur non volendo saperne di staccarsi dalle spalle di Brahms, comincia almeno a barcollare. Anche se poi, volendo trovare un'opera che abbia qualche affinità con questo "unicum", si finirebbe proprio per cadere sulla "Missa solemnis"dell'immenso Ludwig.
A questo punto dico: Berliner Philharmoniker diretti da Herbert Von Karajan, coro Wiener Singverein, solisti Gundula Janowitz (soprano) ed Eberhard Wachter. Così posso chiudere senza dovere neanche aggiungere un commento sulla qualità dell'interpretazione.Carico i commenti... con calma