John Cage compose "Imaginary landscape no. 1" nel 1939: quartetto per due fonografi a velocità variabile, un pianoforte in sordina e un cembalo è il primo dei cinque "paesaggi immaginari" che l'artista americano, uno dei più importanti ed innovatori musicisti del '900, scrisse, nell'arco di poco meno di 15 anni, verso la fine della prima metà del secolo scorso. Essere tra le prime composizioni a carattere misto, elettrico e acustico, ed in cui la componente elettro, al momento dell'esecuzione, era "pre-registrata" fa del pezzo uno dei punti di svolta più importanti della musica contemporanea e, probabilmente, della seconda Arte in genere. Minimale e d'avanguardia "Imaginary landscape no. 1" è il culmine della prima parte della carriera, fino a li legata soprattutto ad un ampio uso delle percussioni, anche non convenzionali, dell'artista ma che già fa presagire la svolta che, un lustro dopo, Cage intraprese verso l'Alea, la musica "casuale" ed "automatica", influenzata dall'abbraccio alle filosofie asiatiche induiste, buddhiste e Zen.
Gli occhi sono chiusi ma, dall'esterno, vibrazioni di luce intercorrono a ritmi irregolari. Dentro me il sangue sembra non scorrere: solo disordinati impulsi magnetici lo costringono a non gelare e a mantenermi in uno stato di vigile morte. In sospensione tra una danza ossessiva, di dita sui tasti, e fosfeni baluginanti, in un buio più immaginato che reale, la mia stessa essenza si trova a correre su di un sottilissimo filo elettrico. Il pensiero, o ciò che di esso rimane, viene presto catturato in vortice immateriale: la sostanza stessa di cui l'universo è fatto si percuote in me e mi costringe a gravitare attorno ad un denso nucleo di silenzio. Non avrò pace finchè non riuscirò a delineare un paesaggio ondifluo e mutevole, non avrò riposo finchè questo freddo inverno sonoro non sarà placato. Mentre scivolo ormai quello che ero è scisso in molecole, via via più piccole, che in un matematico rito religioso si muovono verso l'Essere stesso. Infinito, infinito, infinito.
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