«Non c’è mai fine. Ci sono sempre dei suoni nuovi da immaginare, nuovi sentimenti da sperimentare. E c’è la necessità di purificare sempre più questi sentimenti, questi suoni, per arrivare ad immaginare allo stato puro ciò che abbiamo scoperto. In modo da riuscire a vedere con maggior chiarezza ciò che siamo. Solo così riusciamo a dare a chi ci ascolta l’essenza, il meglio di ciò che siamo.»
(Riportato da Nat Hentoff nelle note di copertina scritte per l’album 'Meditations')

1960: Ornette Coleman inventa il free jazz. Il genere non viene apprezzato dal grande pubblico e nemmeno dagli stessi jazzisti.

1964: 'A Love Supreme', primo album free jazz di John Coltrane, batte 'Kind Of Blue' diventando l’album jazz più venduto al mondo.

1965: John Coltrane incide 'Meditations'.

Il free jazz è una forma estrema di Jazz. Prima il jazz delle strade, poi quello pulito e raffinato da Gershwin, poi il bonario jazz da banda di Miller, cui si contrappose l’arrabbiato Bebop nero di New York e Charlie Parker, fino alla risposta “bianca” del Cool Jazz capitanata da Davis e Baker.

Il free jazz rappresenta un genere che da semplice forma di intrattenimento diviene maturo e intellettuale. Non più impacchettato, relegato a schemi. Non più estesamente commercializzato, perché intimo e individuale. Dimenticate temi e ritornelli. Esso è qualcosa di reale, che vive e respira. Diventa lo stesso concetto di comunicazione, tradotto in musica. Talvolta è ribellione, ma è soprattutto meditazione.

In genere un’artista tende a godersi il successo dopo aver plasmato il capolavoro della sua vita. Ma i grandi artisti non sono mai contenti. “Meditations” fu registrato da John in un anno, e segue quella “illuminazione” religiosa che aveva caratterizzato 'A Love Supreme': una musica libera e atonale, dissonante, senza una base sicura, in cui gli strumenti vengono portati allo stremo nella più pura improvvisazione. Esso riassume tutta la logica (non logica forse!) del free jazz scoperto nel disco precedente, considerato il vero caposaldo dell’artista.

Scordatevi il jazz elegante e cristallino. Qui siamo di fronte al suono puro e crudo, che ci viene bombardato nelle orecchie senza legge né regola. Già dalla prima “The Father, The Son & The Holy Ghost”, sembra di precipitare in una danza tribale in cui i musicisti sono posseduti da forza indomita. E’ il delirio totale, un caos di ispirazione religiosa, contaminata da psichedelia voodoo senza freno. Si passa alla più rilassata “Compassion”. La luce divina, come suggerisce anche il titolo, rimane, ma non è più accecante (e allucinante…) come nel “brano” precedente; gli strumenti non sono più sovrapposti gli uni sugli altri, e così il pandemonio viene superato da un assolo di John che toglie il respiro.

Love” vuole essere un curioso intermezzo di contrabbasso tra la prima e la seconda parte. L’amore non è tangibile, non lo puoi scegliere, non si può spiegare razionalmente: così è l’amore profano, e così è ancor di più l’amore divino. Quindi è una musica che ti parla quando lo vuole, il suo suono quasi ti “gratta” la mente in modo discreto e senza logica precisa. La passione torna in “Conseguences” (forse le conseguenze dell’amore?) in cui i versi e le scale si rincorrono senza sosta. E’ un climax che va crescendo, e muore raggiungendo l’apice, quando si incontra l’ultimo brano, “Serenity”, che è appunto una totale distensione, e ci si sente come sospesi nel vuoto.

L’ascoltatore comune fatica ad ascoltarlo perchè è relegato al limite, allo schema e alla concretezza, come in effetti è limitata la natura di tutti gli uomini; e infatti nemmeno io lo ascolto con leggerezza. La musica in questione è soprannaturale, va oltre i canoni umani. Le sensazioni che mi ha lasciato sono straordinarie, eppure non riesco a comprenderlo, in verità nemmeno a spiegarlo con parole mie; ma lo consiglio a chiunque voglia, anche solo per un attimo, scoprire la musica come materia sonora e nient’altro, come una evasione completa da ogni canone.

 

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