Poter tornare indietro nel tempo e frequentare il Greenwich Village di New York nell'autunno del '61, per un amante del jazz, sarebbe un sogno ad occhi aperti. Il Five Spot ospitava il quartetto di Ornette Coleman nelle prime settimane di ottobre, cui seguì Cecil Taylor. Lennie Tristano e Lee Konitz erano all'Half Note, e Sonny Rollins era alla Jazz Gallery. E poi c'era il Village Vanguard, ovviamente, che pochi mesi prima aveva ospitato il Trio di Bill Evans con Scott LaFaro, che registrò le più belle musiche per piano trio nell'arco di decenni.
E proprio al Village Vanguard, il tempio, il simbolo del miglior jazz live, il 24 ottobre arrivò John Coltrane, e vi rimase fino al 5 novembre. Le registrazioni riguardano le serate del 1, 2, 3 e 5 novembre, per un totale di 22 performance di 9 composizioni diverse, quattro ore e mezza di musica tesa e concentrata, su 4 cd. La musica che la sua formazione vi suonò colse quasi tutti impreparati, tanto che buona parte del pubblico e dei critici per loro limite non apprezzarono i concerti. Il repertorio, innanzitutto, non venne incontro alle attese di chi avrebbe voluto sentire un'ennesima “My Favorite Things”, più standards e ballads.
In queste sedute furono registrate 4 versioni di “India”, 4 di “Spiritual”, 3 ciascuna per “Impressions” (che altro non è se non "So What“ di Miles Davis) e “Chasin' The Trane” (un blues teso, ossessivo), 2 ognuna per “Greensleeves”, “Miles' Mode” e “Naima”, ed una sola versione per “Brasilia” e “Soft As in A Morning Sunrise”.
Una rosa di brani in cui la passione che John nutriva in quel periodo per la “non-western music” viene completamente soddisfatta. Forti tinte esotiche pervadono ad esempio “India” (ovviamente!), come “Spiritual” e “Greensleeves”, in virtù del fatto che John suona il sax soprano al posto del tenore (e sembra come un incantatore di serpenti), in virtù dei modi orientali impiegati (il famoso jazz modale), e per la strumentazione particolare. Infatti ad affiancare il quartetto “classico” di John, di cui facevano parte McCoy Tyner al piano, Jimmy Garrison o Reggie Workman al contrabbasso e Elvin Jones alla batteria, in questa occasione troviamo nientemeno che un gigante del modernismo, il clarinetto basso Eric Dolphy (che qui suona anche il sax contralto in “Impressions”, “Brasilia” e nelle prime due versioni di “Chasin' The Trane”). Ed oltre a Dolphy, presente nella maggior parte delle tracce a formare uno straordinario quintetto, troviamo a completamento dell'organico strumentale due figure interessanti: Ahmed Abdul-Malik, un bassista conosciuto per la sua collaborazione con Thelonious Monk, che qui però suona l'oud, una specie di liuto medio orientale dal tipico suono esotico, ronzante, che conferisce una sonorità particolarissima alla prima, seconda e quarta versione di “India”; e un tale Garvin Bushell, che suona l'oboe nella seconda e quarta versione sempre di “India”, ed il “contrabbasson” (una specie di basso tuba ancora più grave) nella seconda e quarta versione di “Spiritual”. I due non fanno assoli, ma il loro contributo è importante per il sound di gruppo. Tra i crediti compare anche l'ottimo Roy Haynes, che sostituisce dignitosamente alla batteria Elvin Jones nella seconda versione di “Chasin' The Trane”, che apre la seconda serata, perché Elvin era in ritardo (come sempre!).
Sul rapporto Dolphy-Coltrane, e su quanto Eric fosse integrale in questo gruppo, e ben più di uno special guest, si potrebbero scrivere decine di pagine, così come sui loro discorsi preferiti: tecniche di improvvisazione, scale, modi, sonorità, metodi per spingersi “oltre”. Qui possiamo goderci i risultati pratici delle loro teorie: una musica sul filo del rasoio, ad un passo dal free jazz (anzi si potrebbe anche definire free jazz; quello bello, però!), spigolosa, complessa, articolata, capace di condurre in uno stato di trance, in un vortice di suoni e ritmi. I due avanguardisti sono davvero sulla stessa lunghezza d'onda, il loro sodalizio artistico in queste registrazioni raggiunge risultati di intesa paragonabili a quelli di Dizzy Gillespie con Charlie Parker, o di Django Reinhardt con Stephane Grappelli, o di Ornette Coleman con Don Cherry.
Inutile dilungarsi sulle singole versioni dei brani, però ascolti ripetuti ripagano moltissimo e consentono di notare le differenze a volte macroscopiche, anche di mood, tra una serata e l'altra.
Basti dire che la terza versione di “Chasin' The Trane” è entrata nella leggenda: 15' di pazzesca, geniale, terrificante, potentissima improvvisazione di sax tenore in trio con basso e batteria. John è un terremoto, Garrison ha un suono ugualmente potente, ed Elvin Jones realizza una delle sue performance migliori, evidenziando la sua visione circolare e poliritmica del ritmo, perfetta cornice per il quadro astratto ma antropomorfo di John.
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