Magnifico. Mi trovo sinceramente in difficoltà nel recensire una simile registrazione.
Si tratta della testimonianza di uno dei momenti più ispirati e prolifici della carriera di Trane, la testimonianza di 6 serate allo storico Village Vanguard di New York, durante le quali il John Coltrane Quartet (accompagnato da ospiti illustri, primo fra tutti Eric Dolphy) dà una tangibile dimostrazione della sua indiscussa genialità.
Le caratteristiche stilistiche dei quattro si integrano fra di loro a meraviglia, creando un perfetto mosaico nel quale gli “sheets of sound” di Trane si fondono alla perfezione con la furia e complessità della batteria di Elvin Jones, l’ariosità, precisione e leggerezza del tocco di McCoy Tyner e l’incalzante e mai scontato contrabasso di Jimmy Garrison.
È sconvolgente la facilità con la quale l’ensemble riesca a passare dalla furia esecutiva di composizioni quali “Impression”, “Chasin the Train” o “Brasilia” a momenti di dolcezza e profondità inenarrabili, quali “Naima” o “Spiritual”.
Ogni nota, ogni singolo spazio musicale sembra collocarsi al posto giusto nel momento giusto, sintomo questo della particolare ispirazione che deve aver colpito il quartetto nel corso di queste serate.
Da non dimenticare poi la grande prova offerta da Eric Dolphy, musicista quasi idolatrato da John Coltrane, che con il suo particolarissimo stile (Miles Davis una volta disse che suonava come se gli pestassero i piedi) si perde spesso sopra le righe del tema centrale, tenendolo però sempre presente quale, sia pur labile, ancora di salvataggio.
Particolare omaggio deve essere infine reso alla registrazione. Nitida, potente (forse con Eric Dolphy leggermente preponderante rispetto agli altri) capace di renderci addirittura il rumore dei bicchieri nel locale.
Imperdibile.
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Altre recensioni
Di Contemplazione
Il 24 ottobre arrivò John Coltrane, e vi rimase fino al 5 novembre.
La terza versione di “Chasin’ The Trane” è entrata nella leggenda: 15’ di pazzesca, geniale, terrificante, potentissima improvvisazione.
Di ChaosA.D.
Ti lasciano sulla pelle un marchio indelebile, una sensazione che ogni tanto ti riporta lì, tra quei solchi maledetti in cui un pezzo della tua anima si è rifugiato e non ha nessuna voglia di andarsene.
Un lavoro progressivo per quei tempi di grande apertura mentale che oggi, a causa dell'imbarbarimento culturale che stiamo vivendo, risulta perfino troppo avanti.