"Tira giù la mia chitarra e sfasciala contro il muro così che possa morire tranquillamente"

John Fahey mi ha sempre messo a disagio, non tanto la prima volta che ascoltai un suo disco, un tributo alle carole natalizie, Bianco Natale e compagnia bella suonate da un virtuoso della chitarra acustica come ce ne sono a bizzeffe.

Mi ero fatto un'idea sbagliata e pian piano la verità mi si è rivelata addentrandomi come il capitano Willard nel delta del fiume Mecong alla ricerca del colonnello Kurtz: un cuore di tenebra. Più mi immedesimavo nei titoli incantati dei suoi brani  (roba del tipo "La danza degli abitanti della invisibile città di Bladensburg") e più mi abbandonavo al logorroico delirio del fingerpicking di quest'uomo che cominciava ad affascinarmi e ... a perdermi. Gli riconoscevo un immensa cultura musicale folk e blues ma allo stesso tempo comprendevo che il suo animo era dilaniato da qualcosa che noi mezzeseghe, alla ricerca della perdizione su un barcone fluttuante su un fiume o sedute davanti ad un impianto stereo, non possiamo comprendere.

Come si spiegherebbe allora che a quattordici anni acquista per posta la prima chitarra per imparare gli inni ecclesiastici e quattro anni dopo già suona alla perfezione il luciferino blues del Delta? Che finge di fare il suo primo disco a mezzo con Blind Joe Death, un vecchio bluesman che esisteva solo nella sua fantasia malata? Che qualche anno dopo tenta di suonare i nastri a rovescio? Che riempie le copertine dei suoi dischi con esternazioni e disegni della sua vita perlopiù inventata? Che ad un certo punto decide di cedere la sua etichetta Takoma ad un'altra  casa discografica e da padroncino indipendente si mette a fare il garzone, perdendo gran parte dell'entusiasmo magico che aveva avvolto la sua opera?

Ascoltando "The Voice of Turtle" (1968) con la sensibilità giusta forse tutto sarà chiaro. Ho detto forse, perché dovete riuscire ad afferrare il senso che lega tutte queste meraviglie,  bottleneck blues dal sapore oscuro, ballate country accompagnate dal fiddle che accendono le danze, arpeggi folk che si appoggiano con leggiadria sul soffio di un flauto. Prendere per buona tutta questa "classicità" e poi invece addentrarsi nell'orrore, combinando i raga tibetani con la psichedelia californiana (A Raga Called Pat).  Oppure nella straordinaria storia di Dorothy Gooch, con quei gravi accordi di pianoforte che aprono la strada ad un disperato blues chitarristico che dilania l'anima... chi ha paura di Dorothy Gooch?

La voce della tortora è un versetto del "Cantico dei cantici", ma Fahey ne sbaglia (?) la traduzione: esiste la voce della tartaruga? E soprattutto esiste John Fahey? E' quel segaligno giovane chitarrista che sembra un impiegato dell'ufficio postale di Takoma oppure quell'orso gonfio dalla barba bianca, stanco e svuotato, che negli ultimi anni della sua vita piscia acidamente addosso a tutti, specialmente su quelli che lo incensano come il padre della New Age?

Secondo me è uno degli abitanti dell'invisibile città di Bladensburg. Lo potete trovare ancora a suonare da quelle parti.

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