Dai lineamenti superstiti dev’essere proprio il titolare del disco, truccatissimo, lo “zombie” effigiato in copertina. Che poi più che uno zombie sembra… cosa sembra? Un mix fra gibbone (il naso), gatto (gli occhi) e uomo.

Senz’altro zombiesca è stata per lunghi anni la situazione professionale dello sfortunato John, tormentato da una sanguinosa causa giudiziaria col suo ex-management, sfociata nella perdita dei diritti di pubblicazione su tutte le sue celebri, remunerative canzoni dell’epoca Creedence. Per più di vent’anni, a partire da questa fase di carriera (l’album in oggetto è del 1986), Fogerty si costringerà a non eseguire mai dal vivo i suoi numerosi, intramontabili hit targati CCR, per non arricchire tramite essi la controparte in causa. Pensa te che situazione.

Casini legali o meno, è un dato certo che anche il bravissimo John, finita la fase con il seminale gruppo dei suoi migliori anni di gioventù, abbia combinato ben poco in aggiunta. L’uomo è tuttora pienamente attivo, ma tutti i dischi pubblicati nel mezzo secolo trascorso dalla fine dei Creedence conterranno, a stare larghi, il dieci per cento delle sue canzoni migliori. E’ un destino d’altronde comune ad altri grandi, come e più di lui (McCartney, Page, Brian Wilson, Ian Anderson, Jagger e Richard, Dylan…), quello di aver dato largamente il meglio di sé sotto i trent’anni o poco di più, ma tant’è…

Cosicché la cosa migliore di quest’opera è… la copertina, conturbante e ansiogena come poche altre. Tecnicamente, John è sempre lui: voce che spacca, chitarra minimalista e affilata, il solito oscillare fra rhythm&blues, country, rock’n’roll, blues con stesure semplici, nitide, dirette. Però coi CCR gli uscivano, una canzone su tre, delle perle melodiche magistrali, riffetti di chitarra da enciclopedia del r’n’r, la semplicità fatta genio, canzoncine che si conficcavano nei cervelli di tutti senza poter mai più uscire.

Qui, ma un po’ in tutta la discografia a suo nome dal 1973 ad oggi, vi è lo stesso accogliente ambiente musicale, la medesima impagabile grinta, l’a prevista invidiabile destrezza sulla chitarra e su altri strumenti, ma tutto finisce per scivolare via ed essere catalogato come piacevole intrattenimento, niente di più.

Non ci potrà mai essere dato di sapere se con un destino professionale meno problematico quest’uomo ci avrebbe trasmesso tante altre canzoni epocali, dopo quel mazzo copioso e indelebile sgorgato dal 1968 al 1971. In questo disco non ve ne è nessuna, e quindi esso è rivolto solamente a completisti e/o assoluti discepoli del verbo del californiano di Berkeley col caschetto di capelli alla Robert Redford e la voce alla Wilson Pickett (pure meglio, anzi).

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