The Proposition, non è quello che propriamente molti definirebbero un film. Spiacente, se pensate il contrario, siete liberi di abbandonare questa lettura. Non mi offendo mica, sapete? Anzi, prego. Tuttavia, se invece ritenete e morbosamente vi domandate sul perché di questa mia follia descrittiva quanto introduttiva, beh, allora è doverosa la mia spiegazione a riguardo. Doverosissima.

Quando nel Gennaio del 2005 ebbi notizia di questa "uscita", non sapevo ancora bene interpretare cosa avesse spinto Nick Cave a promuovere il suo lato oscuro, quello che con grande maestria si può cogliere negli album dei Seeds, portandolo ad intraprendere simil lavoro. Proprio così, pensavo a tal fine dopo avere ovviamente letto la line-up destinata ad aiutarne l'operato, che non avrei certo avuto modo di intrattenermi con materiale alla Sokurov o alla Herzog, ma senz'ombra di dubbio qualcosa mi avrebbe colpito in esso. E mi colpì, eccome.
Mi colpì con eleganza, con spiritualità, e soprattutto con tanta, tanta, tanta decadenza.
Ne sono certo signori, il film denominato "The Proposition" (La proposta), non è un film.

Un film dovrebbe avere, a seconda del sottoscritto (ovviamente), due caratteristiche fondamentali: la capacità di rappresentare una data situazione (anche se astratta, a prescindere dal contesto in cui si sviluppa da un certo punto di vista estetico), ed il mezzo, idoneo e proprio volto a rappresentarne l'emblema. Ma questa pellicola, signori, trascende da entrambe. Ciò che resta in bocca, avvinghiato al palato, è lo spirito che anima ogni azione: polvere, vento e sole. Ma anche sangue, tanto sangue. Questa è infatti una rappresentazione a se stante, in cui le due caratteristiche a cui facevo prima riferimento, rimangono translucide lungo l'evolversi delle cruente situazioni a cui il vecchio Nick dedica l'intera sceneggiatura. Sceneggiatura che mai come negli ultimi anni ha saputo donare sensazioni nelle espressioni e nei volti degli interpreti (cosa che in teoria dovrebbe essere ricondotta principalmente alla abile regia), tale da abbandonare la convinzione di assistere ad un film. La regia (quella vera, intendo) è invece affidata a John Hillcoat, e penso che assieme ad essa vi fosse un allegato non poco difficile: il deserto fatto di spiriti e di voci che popola la mente di Cave, con le sue ombre, i suoi tramonti e i suoi cadaveri. Questa l'ambientazione, l'Australia di fine ottocento, l'Australia fatta di polvere sassi e caldo. L'Australia spaurita, che combatte ogni giorno la modernizzazione imposta dal ferreo braccio di sua Maestà. La storia sembra sperdersi tra le mie parole, ma in realtà ha poca importanza, perchè questa non è una storia, e se volete saperlo, quì centra poco anche la Storia, intesa come politico-sociale. Questo è il riflesso di un'epoca il cui tramonto trova la sua fine nella nostra. Mentre Dio rendeva gli uomini particolari e diversi gli uni dagli altri, la pistola li rese uguali, li appiattì donando loro l'universale potere decisionale di vita o di morte sull'altrui esistenza. Ognuno carnefice e vittima di una cosa sola, se stesso. Ed è in questo che i contenuti spiccano così maestosamente.

Tre fratelli, vengono incriminati dello stupro e dell'uccisione di una giovane donna borghese, incinta di diversi mesi. Dei tre, solo uno è realmente colpevole. Gli altri due vengono catturati, mentre il vero colpevole si abbandona e fugge nel deserto con i suoi tirapiedi, di cui uno mezzo-sangue. Tra i fratelli catturati, il più giovane, Mikey, viene incatenato e fatto oggetto di un ricatto da parte del capitano inglese Stanley, mentre a Charles (Guy Pearce) viene proposto di inseguire in segreto il fratello tra le lande aborigene e devastate dal caldo e dall'aridità, al fine di salvare dalla gogna il rimanente e sprovveduto Mikey. Ogni atto del film prende dalla fase iniziale un sentore inaspettato, quasi una preghiera che porta ciascuno dei personaggi, misantropi e non, ad affrontare verso se stessi una battaglia contro le proprie personali frustrazioni, ognuna delle quali pone le proprie basi su un irremovibile senso di resurrezione che spinge ogni singolo interprete ad applicarsi con dedizione e disperazione verso ciò che la sceneggiatura di Cave offre in modo così spontaneo.

Il deserto, il cielo ed ogni elemento della natura si deforma a contatto con la violenza ed il sangue purpureo che questa storia sa confidare in ogni momento delle sue fondamentali evoluzioni. La calura ed il vento porteranno con se il rimasuglio di uomini che dal passato ci richiamano ad una realtà, quella moderna, non molto dissimile a quella inerente alla pellicola. Una poetica visione della decadenza nella selvaggia Australia, accompagnata da un sottofondo musicale (quello dello stesso Cave e di Warren Ellis) che saprà donare un ulteriore senso di maledizione e di rassegnazione culminante nella speranza e nello spirito.

Un Nick Cave da favola allo screen-play, un cast all'altezza, una regia non facile da affrontare ma più che sufficiente.
L'evaporazione della fede.

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