Lo chiamano "Urban Blues" il suo. Un blues scarno, sanguigno, fatto di cose tolte, senza orpelli nè abbellimenti (o presunti tali).
Una chitarra nervosa e indisciplinata, che spesso preferisce alle rassicuranti sequenze di accordi blues l'incedere selvaggio di un unico accordo ritmico. Una predilizione per tonalità scure e riffs ipnotici, ripetuti in maniera ossessiva e indolente. Una voce profonda e cavernosa, cruda e viscerale, prepotente e maleducata, evocativa e sensuale, in una parola ineguagliabile.
"Chill Out" esibisce i tratti appena delineati con la disinvoltura e l'eleganza proprie dei grandi dischi. Per giunta, si caratterizza per una sorprendente versatilità stilistica, significativa soprattutto in rapporto agli standard compositivi del bluesman. In particolare, accanto ad un'evidente quanto inaspettato avvicinamento al blues "ortodosso", si notano contaminazioni soul più o meno marcate, una strizzatina d'occhio al rhythm and blues e un'apertura al rock latino di Santana, con cui il nostro firma la splendida "Chill Out (Things Gonna Change)", "incipit" del disco, tripudio di colori caldi e gioia estiva, dipinti alla perfezione dallo straordinario tocco chitarristico del musicista messicano.
Finito il nostro giro in bici tra le assolate strade del Messico, con "Deep Blue Sea" ci troviamo catapultati in mezzo ai campi di cotone del Mississipi, ad ascoltare il blues di un vecchio raccoglitore di colore. Un blues che più Hooker non si può. Protagonisti: una chitarra acustica monotematica (probabilmente con un'accordatura aperta), una voce sofferta, un piede che batte il tempo. E basta. O meglio, il resto è magia.
Si rimane ad ascoltare ipnotizzati ogni singola nota, ogni singola modulazione della voce. Quattro minuti scivolano il fretta e così, in men che non si dica, dalle piantagioni di cotone ci ritroviamo in uno di quei magnifici locali americani di fine anni '50, in cui blues e jazz suonavano fino a mattina inoltrata: "Kiddio" appare leggermente naif ma sprizza simpatia da tutti i pori, per cui risulta un episodio decisamente godibile.
Di tutt'altra pasta è il pezzo successivo, "Medley, Serves Me Right To Suffer, Syndicator", un vero e proprio feticcio per gli amanti della grande musica: "Uncino" duetta con Van Morrison, un altro mostro sacro dall'eclettismo incommensurabile, in un blues che, pur muovendosi su strade già percorse e ripercorse (come nella migliore tradizione del resto), esibisce una freschezza esecutiva ed una potenza straordinarie e quasi del tutto ascrivibili alla grandezza degli interpreti. Decisamente uno dei picchi compositivi dell'album.
Passata la sbornia, ci imbattiamo in un liquido rhythm and blues che scorre via senza particolari pretese, per poi approdare alla splendida "Tupelo", altra manifestazione lampante del minimalismo blues di Hooker, seguita da "Woman on my Mind", che si pone sulla stessa lungheza d'onda della traccia precedente. In questi pezzi, le doti interpretative di Hooker - alla voce e alla chitarra - emergono in maniera lampante e ci mostrano ancora una volta un fatto che non a tutti è chiaro: un conto è suonarlo il blues, un conto è sentirlo bollire nelle vene. E questo a prescindere dalla tecnica esecutiva di cui si è in possesso (è risaputo tralaltro che Hooker non fosse un chitarrista prodigioso).
Ma torniamo all'album. "Annie Mae"è un blues di quelli che ti rimangono dentro, dominato da sensazionali fraseggi di pianoforte e da una chitarra languida che qua e là cucisce ghirlande di pentatonica da brividi. La grazia e l'eleganza di "Too Young" ci cullano in una "ninna nanna" soave, in bilico costante tra blues minimalista e soul, "exemplum" ideale della varietà stilistica che contraddistingue l'album.
Con "Talkin' the Blues" invece ritroviamo, con piacere, il vecchio sporco blues del vecchio John, che con il suo parlato inconfondibile ci racconta una storia che potrebbe essere la sua, la vita di una musicista che viaggiò 90 (o 19..) giorni e.. beh il resto è scritto negli altri versi del pezzo... Con "un principio di tristezza in fondo all'anima"- per dirla con le parole di un grande - giungiamo all'ultimo brano.
La commovente "We'll Meet Again" riprende il discorso iniziato con "Too Young", con la differenza che qui l'ago della bilancia pende decisamente dalla parte del soul: l'andamento soffice disegnato da pianoforte e organo, l'interpretazione vocale insolitamente morbida e vellutata (beh, come può essere morbida e vellutata la voce di Hooker s'intende..), la chitarra mai invadente, la ritmica placida e rilassata. Tutto è in perfetto stile soul e la cosa non può che lasciarci piacevolmente sorpresi. "We'll Meet Again" è un pezzo carico di pathos, e sentirlo cantare quelle parole oggi che non c'è più provoca un turbinio di emozioni in chi lo ha amato e lo ama ancora.
Tristezza anzitutto. Ma anche la consapevolezza che John sopravvive nelle sei corde delle nostre chitarre e che in ogni blues suonato dalle quelle stesse chitarre, noi lo rincontreremo. Per sempre.
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