1970. John Lennon, quattro accordi, un paio di amici e tanto dolore da raccontare. Con gli occhi velati dalle lacrime causate dalla sofferenza interna, John ci racconta il suo mondo. Un mondo freddo, superficiale, dannatamente patetico, in cui “God is a concept by which we measure our pain”- da “God”.
Lo spettro dell’inutilità esistenziale di un uomo chino sui propri tormenti si riflette nell’evocazione del dolore adolescenziale che appare in quasi tutte le undici tracce del disco. John è un uomo solo, al confine tra l’abbandono e la disperazione, che trova pochi e fugaci attimi di sollievo in Yoko (che nel frattempo produce il disco speculare "Yoko Ono -Plastic Ono Band"), nella quale vede il completamento del suo animo. John è un sognatore distrutto dalla sua stessa sensibilità, è un anima peregrina che, priva di adeguati calzari si scopre a vagare sui campi arsi dalla desolante solitudine rinchiusa nelle sue parole.
John Lennon è stato il più grande filosofo del ventesimo secolo. Nessuno come lui ha sviscerato così profondamente la tristezza del borghese (“keep you doped with religion and sex and TV and you think you’re so cleaver and classeless and free” da “Workin Class Hero”), nessuno più di lui ha smascherato con parole così amaramente efficaci lo stato di isolamento dell’individuo che si ostina a definirsi “moderno”.
John è un uomo che dalla sua disperazione trae la capacità di sussurrarti all’orecchio dolci parole d’amore (“Love is touch, touch is love, love is reaching, reaching love, love is asking to be loved” da “Love”) ma che dalla stessa disperzione si lascia a volte sopraffare (“I don’t expect you to understand after you caused so much pain, but then again you’re not the blame, you’re just a human, a victim of the insane” – “Isolation”).
La scelta mirata di pochi accordi di pianoforte, di un batterista dal tocco grossolano come Ringo Starr, di elementari linee del basso di Klaus Voormann e di piccoli ricami di chitarra adeguatamente saturata hanno in questo disco (che io ho ribattezzato “The Modern Gospel according to St. John”) la stessa funzione di quelle linee volutamente indecise e quei colori tra il grigio acciaio e l’azzurro spento che non possano che incupire l’indifferenza dello sguardo dei tre uomini girati di schiena in “Le Pont de l’Europe” di Gustave Caillebotte (1877): nel quadro in questione il movimento e la posizione di quei tre uomini, posti a margine di un contesto così desolante per la natura umana qual è la rivoluzione industriale, non ci permettono di vederne l’espressione ma solo di intuirne la triste indifferenza nello sguardo. Il movimento e la posizione degli accordi e delle linee di “God”, “Remember”, “I Found Out”, “Mother” e “My Mummy is Dead” assolvono alla stessa funzione: precipitano l’ascoltatore nell’angoscia del presente lasciandogli immaginare l’ordine di grandezza del dolore che governa Lennon senza vederne perfettamente l’unità di misura.
L’unico momento in cui sembra che la luce del sole riesca a trapassare le spessa coltre di nubi che ottenebra il cielo dell’Autore per rischiararne l’espressione è in “Hold On”: la massiccia presenza di accordi maggiori, la melodia meno aspra rispetto al resto dell’opera ed un testo più disponibile alla felicità in prospettiva (la canzone inizia con “Hold on John, John hold on, it’s gonna be alright, you gonna win the fight” per ripetersi con “Hold on Yoko, Yoko hold on, it’s gonna be alright, you gonna make the flight”- notare la raffinatezza della contrapposizione tra il guerriero Lennon che deve vincere la battaglia e la dolcezza della farfalla Yoko che spiccherà il volo) lanciano il germe della speranza anche nello sconforto cronico di Lennon. Lo stesso Lennon che si permette un po’ di umorismo noir nella parte finale di God, nella quale, dopo aver affermato di non credere né in Hitler né in Jesus o Kennedy, ci racconterà di non credere nemmeno in Elvis, in Zimmerman, nei Beatles o in se stesso individualmente perché “I just believe in me, Yoko and me”.
Questo disco narra della disperazione usando i giusti colori ad olio per ogni gradazione del dispiacere. Questo disco narra del giallo-vergogna, del grigio-pessimismo, del bianco-ghiaccio e del nero-morte. Questo disco narra della morte nera dell’anima. Senza satanismi, senza scene di violenza gratuita, senza sangue in copertina infonde un senso di decesso spirituale maggiore di qualsiasi disco degli Slayer. Dato che nelle sale cinematografiche sta per uscire “La Passione” di Mel Gibson posso affermare che questo disco è la “passione” di John Lennon (la sua “Via Crucis” si ferma però a 11 stazioni). O meglio: il Vangelo secondo John.
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