Uno strano periodo per John, quello iniziato dalla fine del 1973. Il “lost weekend” - fase di riflessione e di distacco affettivo indetta da Yoko Ono - ebbe l’effetto di gettare colui che si dichiarò essere Il Tricheco in un limbo multicolore disegnato dall’alcool ed eretto efficacemente dalla droga. Il progetto originario sarebbe stato quello di creare un cover album di classici rock anni ’50 insieme a Phil Spector, sotto gli occhi dolci dell’amante May Pang, ma le sbornie continue e il voltafaccia di Spector - andatosene con le incisioni dei pezzi - imposero un rinvio del tutto al 1975 (quando uscii “Rock ‘n’ Roll”). La vita di John pareva a brandelli. Nonostante ciò seppe trovare la voglia di rimettere insieme i pezzi del puzzle, facendo emergere ancora una volta la sua genialità.
Le cariche emotive di quei giorni, la disperazione per la temporanea perdita della propria ossessione amorosa, l’intrigante presenza dell’amante, la paura di invecchiare, la voglia di ricominciare. Sono tutti elementi stupendamente compresi in quel frullatore psicologico che era la mente di John Lennon, capace di sfornare canzoni geniali ed emotive.
Il tutto ha inizio con “Going Down on Love”, un graffiante e doloroso momento di sconforto, che fa capire quanto il Nostro abbia la schiena spezzata da quante sono state le volte in cui si è dovuto piegare per raggiungere qualcosa - l’amore - che alla fine gli è sfuggito beffardamente. Con “Whatever Gets You Thru The Night” veniamo proiettati lungo una strada di Los Angeles, piena di luci e locali, in compagnia di un John che - sfogatosi nella precedente traccia - si lascia andare ad una sana voglia di divertimento e svago. Il generoso uso del sax, lo squisito piano di Elton John e la spensieratezza di Lennon sono travolgenti. “Old Dirt Road” è una meditativa composizione nella quale viene descritta una sporca e desolata strada, sulla quale nessuno vuole transitare (“Non c’è nessuno nella vecchia strada sporca”, “Non c’è aria nella vecchia strada sporca”); tale itinerario è lo specchio dell’anima di John Lennon, in quel periodo lasciata affogare in un mare di ricordi melmosi ed acri.
L’amara constatazione che “Non ci si rende conto di ciò che si ha fino a quando non lo si perde” si coglie nei versi di “What You Got”, straziante appello rivolto a Yoko Ono, accanita tenacia di tornare con il grande amore di sempre, temperata dalla volontà di non essere un peso, di lasciare i giusti spazi. “Bless You” non fa che confermare l’ossessione per l’artista giapponese: in questo pezzo - che si contraddistingue per una sonorità che sarebbe perfetta in un elegante pianobar, con un Martini in mano ed in attesa di una bella bionda - Lennon arriva persino a pregare l’amante di Yoko Ono, il chitarrista David Spinozza, (session man conosciuto da Lennon ai tempi di Mind Games) di trattare la moglie con i dovuti riguardi, in modo amorevole.
In “Scared” ci viene comunicato che la vecchiaia segna più rughe nello spirito che nel viso. John è terrorizzato al pensiero di invecchiare (cosa che, purtroppo, non fece mai): la Bibbia, la parola del Signore, una preghiera non possono impedire che l’uomo scompaia e si spenga come un lumicino; la pace e l’amore predicate solo fino ad un anno prima in “Mind Games” si infrangono in un freddo muro di gelosia ed odio; nessun posto è ormai più considerabile come “casa”; John è scosso e fuor dal mondo.
Il disco è un’altalena di sentimenti, un treno in corsa che sfiora diverse stazioni; la positività ha i suoi confini nella negatività: tutto è connesso. Il sogno ha però il sopravvento. Ci troviamo immersi in una visione onirica incantevole: “#9 Dream”, rilassante, cullante ed emozionante incontro di violino e chitarra. Il sogno ha forse origine da alcune reminescenze “carrolliane” (“Alice attraverso lo Specchio” continua a condizionare Johnny, proprio come ai tempi di “I Am the Walrus” e “Cry Baby Cry”) che portano a percepire il mondo alla rovescia. La confusione, questa volta, ha dei ritorni celestiali e distensivi; il protagonista del sogno si muove in un Eden caleidoscopico, in compagnia di spiritelli che riescono a proferire chiaro all’anima, nonostante il loro idioma stravagante.
Segue “Surprise, Surprise (Sweet Bird of Paradox)”, sereno inno d’amore (artificialmente costruito per sopravvivere, leggendo tra le righe) nei confronti di May Pang, salvagente per non affondare completamente nel male di solitudine nel quale era calato John. L’odio trova ampio spazio in “Stell and Glass”, componimento molto critico, dedicata all’ex manager di Lennon, Allen Klein, reo di aver espresso a George Harrison il proprio disappunto nel vedere Yoko Ono ai concerti di Lennon e per essersi dimostrato poco chiaro in molte questioni economiche.
“Noboby Loves You (When You’re Down and Out)” concentra dentro se un pessimismo che si potrebbe definire leopardiano; l’origine di quest’ultimo si può riscontrare soprattutto nello stallo artistico che accompagnava Lennon e nel contemporaneo successo dell’amico-rivale Paul McCartney, che continuava ad incassare successi grazie al disco “Band On the Run”. La canzone è antitetica rispetto a “She Loves You”: l’amore non può attecchire su una superficie incrostata di odio e depressione; esso è disponibile solo per coloro che hanno l’anima libera da preoccupazioni o problemi: l’amore viene quasi dipinto come un’utopia. Sono lontani i tempi di “All You Need is Love”. “Ya Ya”, dolce duetto dei Lennon con il figlio undicenne Julian (alla batteria), rappresenta una cover di una vecchia canzone anni ’50;
Le tormentate vicende di John Lennon ci vengono straordinariamente rivelate nelle tracce di questo disco. L’amalgama musicale ne risulta vettore straordinariamente efficiente. Credo che pochi artisti al mondo abbiano saputo descrivere la propria situazione emotiva, i propri sentimenti, i propri disagi come Lennon: nessuna finzione, nessuna falsità è rinvenibile in questo lavoro, specchio fedele dell’anima di un uomo, prima che di un “rocker” di successo mondiale.
Sono un grande fan di John Lennon, lo ammetto. Ma non per questo credo di essere stato deficitario in fatto di oggettività, dipingendo “Walls and Bridges” come opera di non comune splendore.
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