Prendete Astral Weeks di Van Morrison, oppure anzi prendete il periodo più toccante di Tim Buckley, quello della commistione tra folk e jazz in opere inarrivabili quali Lorca, Starsailor e anche Happy Sad, ecco, tutto ciò che c'è di divino in queste incisioni, tutto quelle note che diventano anima le troverete anche qui. Affogate nell'alcool, piene di ricordi e lacrime, ma le trovate anche qui.

John Martyn prima di tutto è un maestro nell'uso della voce, la plasma, la usa quasi come strumento, in alcuni casi sembra un sax baritono (si prenda per esempio l'incantevole iniziale Fine Lines), e grazie ad essa ed a dei musicisti fantastici (Danny Thompson dei Pentangle, Steve Winwood e Chris Wood dei Traffic per citarne alcuni), crea un tappeto liquido in cui passa tranquillamente da perfette canzoni folk ad improvvisazioni free jazz senza risultare minimamente pretenzioso, anzi, si riesce a seguire tranquillamente la musica perché è di una spontaneità incredibile... non si rimane stupiti se non alla fine del disco, quando a mente fredda ti chiedi come possa risultare cosi naturale e dolce una scrittura comunque mai scontata o semplice.
Lo scozzese già dalle prime opere targate 1968 (soprattutto da The Tumbler) aveva iniziato ad annacquare la sua scrittura simil Dylan con delle digressioni Jazz, ma è  in questa opera che tocca lo zenit della sua produzione artistica (arte che logicamente sarà pluriosannata molto più tardi, ma assolutamente non considerata al momento della sua uscita).

Ascoltate per esempio Look In, traccia di apertura del secondo lato, dove è la sua chitarra a dettare la scrittura, una specie di funky liquido, un attestato di classe immenso che canta con una forza incredibile ma allo stesso tempo estremamente delicata, oppure la seguente Beverly, strumentale da brivido che evoca paradisi solo immaginati o ancora Outside In, sorta di suo freeformfreakout (con buona pace di Mayo Thompson dei Red Crayola, ma qui la classe è di un altro livello dai...) e spartiacque del disco, tutto mostra una coesione assoluta, ispirazione chissà da quale galassia e sempre e soprattutto quella voce, anzi quelle mille voci, che cullano anche solo sibilando delle vocali.

Ahhh, lasciarsi avvolgere dall'abbraccio malinconico di Ways to Cry e fingere di essere innamorati ascoltando il quasi soul di So Much In Love With You, far finta di aver capito tutto ciò che John ci vuol dire e dover per forza riascoltare il disco dall'inizio, perché appena la puntina si alza percepisci già la magia che ti scorre via dalle dita, un senso di vuoto che prima era un mare calmo, e no, non ne hai abbastanza mai di questo mare...ti ci rituffi con il sorriso, cercando di trattenere il fiato il più possibile per immergerti sempre più in profondità e scoprire chissà quali segreti a te cari.

Immerso negli anni settanta, una decade musicalmente rivoluzionaria come mai nessun altra (anche se forse...a ben vedere tutte le decadi ne hanno avute di rivoluzioni, l'esposizione di esse ha fatto la differenza), un capolavoro al di sopra di idee e ideali.

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