Lo spirito e la carne erano forti. Erano tempi in cui nascevano i giganti, era l'epoca dell'oro: lo Zep Tepi musicale. In quei tempi il cielo era stellato come non prima e come mai più sarebbe stato. Tra i Re, i Giganti, i Maghi si trovavano gli stallieri, gli artigiani, i fabbri e gli alchimisti, il cui lavoro spesso era il più importante, era la base di ogni arte nascente.

Alla corte di Messer Graham Bond, assieme a nobili comprimari quali Jack Bruce e Ginger Baker, si fece strada un tenero virgulto, usava le sue dita sulle corde delle chitarre, come nessuno prima. In quel periodo, proficuo e interessante come pochi, conobbe e fece proprio il jazz e il blues elettrico di impronta britannica. Era certo, logico, che sarebbe a breve diventato un immenso interprete della musica del tempo e dei tempi a venire. Il suo nome, John McLaughlin risuona ancora oggi quale splendido e tra i pochi fulgidi esempi di suonatore che abbia continuato il suo percorso, in questi decenni, con coerenza e fine sensibilità musicale.

Quando nel 1969 diede alle stampe la sua opera prima, quel capolavoro chiamato "Extrapolation", con forti richiami al jazz avanguardistico di Miles Davis, fece un vero botto e Tony Williams lo volle in America per i suoi Lifetime. L'esperienza americana fu determinante per la crescita musicale di McLaughlin e i bombardamento innovativi del periodo, ben miscelati alle conoscenze pregresse, furono i presupposti per questo "Devotion" del 1970. A partire dalla formazione, non più il sax di John Surman, ma l'Hammond B-3 di Larry Young, un batterista non propriamente jazz come Buddy Miles, già con Jimy Hendrix e un bassista meno noto, ma dalle chiare capacità come Billy Rich, diedero nota di cambiamenti in atto.

E, in effetti, Devotion si dimostrò un lavoro dotato di un approccio e di una dinamica tutta personale dove la chitarra, non più pulita e diretta, diventò lo strumento distorto, acido e psichedelico così come inventato dal citato Hendrix e a cui, più o meno palesemente, andò la dedica del lavoro, l'Hammond, per assumere completamente l'incarico di comprimario, non poteva limitarsi a produrre tappeti sonori e iniziò a tessere intrecci con le chitarre in un gioco di alternanze e concatenazioni, che sarebbe stato ripreso in centinaia di lavori successivi, non solo di provenienza jazz-rock, ma anche in ambiente progressive e sperimentale.

Un cenno particolare alle ritmiche, segnate dall'apporto atipico del duo Miles/Rich e dall'introduzione di groove particolari, ricchi di schemi jazz/blues, ma anche di rock e di secca psichedelia post beat. La lunga "Devotion" dà modo di capire quali dovessero essere le moltitudini sonore che frullavano nella mente creativa di McLaughlin, che ben lontano dal ruolo di despota, lasciò spazi enormi alla band che spesso si lasciava andare a tracciare percorsi straniti sotto una chitarra tesa che non di rado respirava melodia, anziché improvvisazione sperimentale.

Seppur più corti, attestandosi intorno ai cinque minuti, gli altri brani contengono embrioni di quello che sarà la Mahavishnu Orchestra "Purpose Of When", di quelle che saranno le esperienze anche mistiche e orientali, derivate dall'incontro con Carlos Santana "Siren", ma soprattutto l'input per quello che sarà il jazz-rock mondiale degli anni a venire "Marbles" e "Don't Let the Dragon Eat Your Mother". Oltre a questo (fosse poco) ogni solco trasuda devozione e tributo allo stile di Hendrix e alle pirotecniche invenzioni chitarristiche in un vortice di parti schematizzate e parti improvvisate, avvicinando talvolta il risultato ad una serie di jam dal grande risultato.

Per certi versi e per certe sue valenze il disco sarebbe da premiare con 5 stelle, ma mi stringo al gradino sotto per le maggiori qualità del citato "Extrapolation", il vero capolavoro di McLaughlin.

Siulette        
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