Ci sono eroi e antieroi. C'è chi ama mettersi in vetrina e chi no. Però esistono anche le vie di mezzo e si devono ricercare in quei caratteri che abbiano, prima grandi spinte emotive, per poi ritrarsi nel guscio, quasi scappando, per timore della loro stessa azione, della propria esuberanza passeggera e della loro emotività. John Mclaughlin credo appartenga a questa schiera. Questo grande chitarrista è eroe, epico persino, quando produce, ma antieroe quando si rifugia, quando sparisce. Deve essere così, non si spiegherebbero altrimenti il suo vai e vieni dal mondo musicale. Nel 2006, dopo un lungo periodo di silenzio discografico, con un rapido cenno di preavviso, saltò fuori questo disco.
Le premesse dell'autore stesso erano orientate verso un grande cambiamento. Quasi a voler mettere le mani avanti, avvertì che le cose, musicalmente, sarebbero state diverse e tanto. Poi il disco arrivò in vendita e ...
Fondamentale la scelta del titolo: Industrial Zen è una chiara contraddizione in termini, quello che si definisce un "ossimoro". La contraddizione pone da una parte la pace interiore esteriore dello zen, dall'altra la turbolenza caotica industriale. Antico e moderno assieme, dentro e fuori, emozioni e glacialità. In pratica quella stessa dualità del suo carattere. Quindi c'è da capire se anche per l'aspetto musicale questa dualità abbia generato un disco alla Giano bifronte con due facce che sappiano convivere in un corpus unicum. A dispetto di tutto, credo di sì. Eppure il disco vive di una coerenza sbalorditiva, di un equilibrio intrinseco modellato sull'Aurea forza delle note e, se mi è permesso un giudizio forte, siamo di fronte alla miglior opera del McLaughlin maturo, affiancandosi a quell'Extrapolation del 1969, che è ancora oggi la sua più strabiliante intuizione.
Industrial Zen, nella sua complessità, nel suo elevarsi, ha tratti poderosi, elegiaci, persino bucolici. Sa fare del jazz rock materia da plasmare attorno ad una chitarra mai stanca, mai presuntuosa e mai scontata. Sa essere nuovo in un mondo di cose già dette, spremendo ed esprimendo quanto di utile ancora la materia sa dare.
Furibondo nel suo avvio dedicato a Jaco Pastorius ("For Jaco"), con due batterie che si intersecano, si completano e si offrono specularmente al gioco ritmico serrato (Mark Mondesir e Gary Husband) dal quale John si tiene fuori per offrire il piatto dell'assolo ad un magistrale Bill Evans e prendersi una memorabile rivincita solo nel successivo "New Blues Old Bruise" con un assolo lungo, fluente come i capelli sulle spalle dall'amata, attorno alle spezzate ritmiche di un meraviglioso Colaiuta. Il disco offre tanta voglia di Weather Report molti i momenti di rimembranza dove i sentieri rifioriscono di Shorter ("Wayne's Way"). C'è una fase sperimentale elettrica, nella quale l'autore vuole giocare con synth e ritmiche artificiali ("Just So Only More So") e dove l'atmosfera diventa rarefatta, le percussioni si fanno tenui, prima della nuova esplosione ritmico-chitarristica, dove un basso pulsa e il sax si concede strappi jazz funky. C'è lo spazio per la natura e la world music, del pulsare terreno, delle voci lontane ("Mother Nature"). C'è una "Senor C.S." dedicata ad una grande amico chitarristica, intrisa di percussioni come solo Santana, appunto, sapeva fare. Insomma una fucina inesauribile di idee e intuizioni che non vogliono finire, una band coinvolgente e strabiliante per tecnica, preparazione e umanità. Un disco da avere.
sioulette
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