Voglio andare a vivere in campagna, aaahhh aaahhh, aaahhh aaahhh ... che non so voi ma io Toto Cutugno a spalare la merda dei maiali non l'ho mai visto, semmai mi sovviene intento a spillare milioni dalle tasche di beoti oligarchi russi.
Chiamatelo scemo, il Toto Nazionale, perché starsene in campagna per chi ci nasce, ci vive e ci muore, non deve essere poi così divertente.
Per me, se uno come John Mellencamp conoscesse Toto Cutugno verrebbe apposta in tour in Italia solo per togliersi il gusto di prenderlo a calci in culo lungo tutto il tragitto che porta dagli Appennini agli Appalachi.
Nel 1985, il giovine Mellencamp si fece promotore di Farm Aid, assieme a Neil Young e Willie Nelson: quell'iniziativa fu messa in piedi e dura tutt'oggi per sostenere gli agricoltori statunitensi contro la minaccia di vedersi espropriati di ogni bene dalle finanziarie a stelle e strisce; quelle stesse che, negli anni, per aiutarli più che tendergli una mano gli lanciarono un cappio.
In quegli stessi giorni, Mellencamp portava avanti la battaglia in «Scarecrow» ed in qualcuno sorse il dubbio che si trattasse di uno dei tanti fenomeni da Live Aid dediti alla causa, sì, ma quella del proprio portafoglio.
Chi continuò a seguirlo, invece, il dubbio se lo tolse subito oppure piano piano, grazie ad opere come «Trouble No More» e «On The Rural Route»; ed oggi, chi come me Mellencamp lo perse di vista dopo «The Lonesome Jubilee» e «Big Daddy», trovandosi di fronte a «Live At Town Hall» non può fare a meno di togliersi idealmente il cappello e chinare rispettosamente il capo dinanzi ad un Artista di tal fatta.
«Live At Town Hall» è il primo disco dal vivo pubblicato da John Mellencamp, dopo quasi quarant'anni di un'onorata carriera costellata da una ventina di dischi in studio: per uno considerato un animale da palcoscenico, alla stregua di gente tipo Bob Seger, Bruce Springsteen e Tom Petty, non c'è male. Basta questo a fugare ogni residuo dubbio, se ancora qualcheduno dubitasse, che il Nostro aneli a far mercimonio della propria passione.
Ma non basta, perché «Live At Town Hall» è l'antitesi del classico disco dal vivo celebrativo, tanto per capirci la pura e semplice greatest hits ad uso e consumo dei fans in astinenza, ai quali basta davvero poco per metter mano all'accendino ed intonare il più scontato degli «Alè oooh oooh, alè oooh oooh».
Tutto al contrario, «Live At Town Hall» è un disco pubblicato undici anni dopo il tour nel quale Mellencamp ripropose integralmente «Trouble No More». Ora, per chi non lo sapesse, «Trouble No More» è in assoluto una delle registrazioni meno "commerciali" di Mellencamp, basandosi esclusivamente sulla ripresa di oscuri traditional, frammenti folk e blues, e voglio proprio vedere a chi di voi, pensando a Willie Dixon, viene in mente «Down In The Bottom».
Poi, è vero, in concerto c'è pure la cover di «Highway 61 Revisited» e la riproposizione di tre brani autografi, ma di questi il solo classico è «Small Town». E qui conviene fermarsi un attimo.
Innanzitutto, per riflettere su come Mellencamp incarni nel 2003 l'animo di un moderno cantastorie, di quelli attorno al quale si raduna un modesto crocchio desideroso di conoscere cosa succede fuori del proprio cortile o anche soltanto per svagare la mente dopo giornate passate a spalare la merda di cui discettavo al principio, e qualcuno dovrà pur farlo, questo sporco lavoro. Avete presente tutte quelle canzoni che prendono il via con l'esortazione a fare cerchio attorno al menestrello di passaggio per ascoltare la storia che ha da proporre? Tutte quelle canzoni che hanno segnato la vita di Guthrie e Dylan, tanto per fare due nomi? In quelle occasioni, accadeva immancabilmente che il cantore di turno adattasse alla bisogna una melodia tradizionale, più o meno nota, questo non importa, per catturare e non far più fuggire l'attenzione dell'uditorio per tutto il tempo necessario allo scopo.
Accadeva un tempo, e grazie a Mellencamp accade anche oggi, con la sola differenza che i moderni traditional magari si chiamano «Highway 61 Revisited» e ben venga prenderli a pretesto per insinuare un minimo dubbio su cosa sia una "operazione di pace", settant'anni fa, oppure dieci ma anche nell'agosto del 2014; perché, dopo tutto, se le parole hanno un senso, allora quel senso bisogna affermarlo e radicarlo nella coscienza.
Ed ecco che Mellencamp quel senso lo ribadisce con forza per una delle sue composizioni più note, quella «Small Town» che, complice un andamento spigliato ed accattivante, rischiava fraintendimenti a iosa, un po' come «Born In The U.S.A.» inno immarcescibile dell'orgoglio yankee. Mettiamola così, «Small Town» non intende che vivere in una piccola città è un ideale, ci si conosce tutti e ci si vuole bene, quando andiamo a dormire lasciamo aperta la porta di casa, proprio no; vivere in una piccola città può essere opprimente, vedere sempre le stesse facce ed ascoltare sempre le solite solfe può indurti a dar fuori di matto, e se hai un minimo di ambizione devi avere due palle come le ruote di un trattore per venirne fuori.
Mellencamp in una piccola città ci è nato e cresciuto e ci vive e forse ci troverà anche la sepoltura; epperò le sue canzoni va a cantarle alla Town Hall di New York, dove un tempo passavano Leadbelly e Pete Seeger. Forse è questo il senso di «Small Town» ed allora Mellencamp ne fa un country-blues lento e scuro, come Springsteen che da un certo momento in poi allo stesso modo cominciò ad interpretare «Born In The U.S.A.» nel corso delle sue esibizioni. E poi c'è quella recidiva insistenza finale sulla sepoltura che, davvero, fa del paesino del 2003 (e del 2014) qualcosa di incomparabile con quello del 1985, quanto meno a livello emotivo.
Anche perché la sola cosa sensata da scrivere per il «Live At Town Hall» è che si tratta di un disco "emozionale", e come mi capita sempre di fronte ad un'opera "emozionale", finisco a raccontare di tutto tranne che del suo contenuto, per cui presumo che, giunto a questo punto, qualcuno si stia chiedendo «Si vabbé, ma com'è questo live di Mellencamp?».
Gli emotivi come me sapevano, o meglio sentivano, già tutto dopo averlo preso tra le mani e data una prima fugace occhiata alla copertina.
Per tutti gli altri, l'invito è quello di avviarsi in un lungo viaggio nei meandri del blues e del folk agro di Robert Johnson e Woody Guthrie, progenitori di quel bastardissimo «R.o.c.k. In the U.S.A.» di cui Mellencamp conosce vita, morte e miracoli; e tenendo bene a mente che in certe occasioni la musica è solo il mezzo (terribilmente efficace) per cantare della vita e della morte di poveri cristi, fuorilegge e puttane dal cuore d'oro e di gente che ha tentato di costruire a modo suo le fondamenta di un nuovo mondo, da Robert Johnson fino a Lucinda Williams.
Perché sì, se Mark Lanegan aveva rivelato ai poveri di spirito come la meraviglia dei Gun Club fosse pari a quella di Leadbelly, Mellencamp si imbarca nella disperata impresa di affiancare «Lafayette» ad «Highway 61 Revisited». E ci riesce in pieno.
Tranquilli, perché ci sono anche bordate di rock'n'roll, «Highway 61 Revisited» su tutte, e se non vi basta puntate dritto su «Teardrops Will Fall», giusto per ammettere che la versione di Mellencamp ha sostituito nei vostri cuori quella ormai impolverata dal tempo di Ry Cooder.
E tutto torna ed il cerchio si chiude, e Mellencamp interpreta «Down In The Bottom» come avrebbe fatto Jeffrey Lee Pierce ai tempi di «Fire Of Love»; e sempre Mellencamp occuperà il posto d'onore nelle celebrazioni del centenario della nascita di Woody Guthrie; e Nora ed Arlo, che lo avevano seguito da vicino nell'avventura «Trouble No More», a quelle celebrazioni vorranno anche Lucinda Williams e Ry Cooder; e chi crede che non c'entri niente, probabilmente questo «Live At Town Hall» non lo capirà mai.
Carico i commenti... con calma