Tutto ciò che sta per accadere è colpa vostra!
John Prine è un’istituzione della musica americana.
Dio in persona, Bob per gli amici, ha dichiarato:
"Le creazioni di Prine sono un puro esistenzialismo proustiano. Viaggi mentali nel Midwest fino all'ennesimo grado. E scrive bellissime canzoni."
Non so voi, ma io credo di aver realmente compreso solo l’ultima parte dell’affermazione. Ma, si sa, le divinità tendono a volte a essere criptiche, immagino per segnare una distanza da noi esseri mortali e, soprattutto, per giustificare l’esistenza del clero.
Sinceramente, preferisco la definizione data da Mary Gauthier in occasione della scomparsa del cantautore, avvenuta nel 2020:
“Un coraggioso rivelatore della verità che, con un occhiolino e un sorriso, ci ha mostrato chi siamo. Noi cantautori abbiamo perso il nostro riluttante leader.”
Sì, un leader che non voleva essere tale. Rispettatissimo e stimatissimo in quel di Nashville, John Prine era uno di quegli artisti profondamente amati dai colleghi ancor più che dal grande pubblico.
Ora, che un cantautore della statura di John Prine non abbia neanche una, e dico una, recensione su DeBaser è un delitto. Ma, si sa, i delitti non possono restare impuniti a lungo.
Questo è il vostro castigo.
E allora: Sweet revenge, without fail!
Il mio Faro&Guida, la mia Dear Abby (1) che mi dispensa saggi consigli, è convinto che sia possibile identificare per ogni artista ‘L’Album’: “quello capace di racchiudere entro i propri confini spazio-temporali le sensazioni più intense ed efficaci. Quel disco, per capirci, che ascoltato quello si può serenamente non ascoltare gnent’altro perché lì dentro c’è la summa e il riassunto di tutto ciò che di meglio il nostro ha coniato” (cit.).
Nel caso di John Prine, non ci sono dubbi: questo disco è il suo esordio, l’album omonimo e il suo capolavoro.
Per questo vi parlerò del terzo!
Infatti, anche nella mia furia vendicatrice sono conscia dei miei limiti, e spero che ben altre penne (sì, lo so, sarebbero tastiere, ma non mi pare il caso d’essere pedanti) omaggino come merita questo capolavoro, non una che non è mai piaciuta neanche al lattaio (2).
Riflettendoci, non sono il primo recensore poco adatto che si è occupato di John, se si pensa che la sua carriera ha subito una svolta grazie alla recensione di un critico cinematografico che mai si era occupato di musica.
Al tempo, 1970, il nostro di mestiere faceva ancora il postino e si esibiva la sera in un locale di Chicago chiamato Fifth Peg. Leggenda vuole che lì vicino ci fosse un cinema e che il critico cinematografico Roger Ebert, uscito dallo spettacolo, entrasse nel locale per bere qualcosa a causa, pare, di un popcorn troppo salato. Ebert fu così colpito da quello che sentì che decise, nonostante non fosse il suo campo, di recensirlo e lo fece con tale entusiasmo, che da allora non ci fu più un posto vuoto alle esibizioni di Prine.
Speriamo che anche a me basti l’entusiasmo...
Entusiasmo, sì, perché, dovete sapere, che, pur non essendo questo disco ‘L’Album’, io lo adoro, a partire dall’autoironica spacconeria della copertina: John con occhiali da sole, stivali da cowboy e sigaretta steso in una decappottabile ci guarda con aria di sfida lanciandoci la sua Dolce Vendetta.
Il primo album, quello che altri (sì, parlo proprio con voi!) recensiranno, era stato acclamato dalla critica, Prine aveva abbandonato il suo lavoro di postino e si era dedicato completamente alla musica. Perciò, quando il secondo disco non aveva ricevuto la stessa accoglienza e la casa discografica si era mostrata scontenta, John, come ammesso in un’intervista, non l’aveva presa molto bene.
Ma se c’è una cosa che aiuta ad incassare meglio i colpi della vita, quella è l’umorismo, e a John decisamente non faceva difetto. Quindi, come aprire meglio il suo terzo album se non canzonando allegramente il suo sconforto? E così Sweet Revenge parte in grande stile con il country rock del brano omonimo, dove ritroviamo il protagonista cacciato a calci dall’arca di Noè che guarda la nave (del successo?) andare via giurando (dolce) vendetta .
L’ironia di Prine non investe solo se stesso, in Please don’t bury me prende gli stilemi country omaggiandoli e irridendoli al contempo. Così, cita classici del genere come Give My Love to Rose e Hand me down my walking cane utilizzando un topos come quello del canzone del morente ma spogliandolo di ogni sorta di eroismo, tragicità o romanticismo. Qui, il protagonista muore banalmente scivolando in cucina e battendo la testa, mentre è ancora in pantofole, e le sue ultime parole non sono di addio per l’amata né di pentimento per una vita dissoluta, ma un inno alla donazione degli organi in cui si lasciano le braccia alla Venere di Milo, gli occhi ai ciechi e le orecchie ai sordi (purché a loro non dispiaccia la grandezza delle stesse)
In un misto di folk, country e rock’n’roll, molto ben suonati, Sweet Revenge è un disco divertente e brioso.
Dear Abby assume addirittura la forma del cabaret, amplificata dalla scelta di registrarla dal vivo con il pubblico che ridacchia in sottofondo. L’ironia a volte diventa cinico sarcasmo, come in The Accident (Things Could Be Worse), ma John non è mai realmente cattivo. Non mancano momenti più malinconici, a partire dalle splendide Christmas in Prison e A Good Time, con il suo bellissimo assolo di chitarra acustica.
Descrizioni dal gusto cinematografico, coesistono con immagini comiche ed elementi autobiografici in Mexican Home, dove, mentre quasi sudate al sentire di un portico in una giornata estiva in cui l’aria è immobile come l’acceleratore di un treno funebre, e sorridete immaginando i vani tentativi di ricerca di un po’ di refrigerio (il ventilatore, la scopa incastrata nella porta per non farla chiudere) e il cucù dell’orologio che stramazza per l’afa, ecco che si inserisce, quasi a tradimento, il ricordo della morte del padre di John, avvenuta, in un caldo pomeriggio d’agosto, sotto un portico uguale in tutto e per tutto (collocazione geografica a parte) a quello della canzone.
La scrittura di Prine si contraddistingue per semplicità e umorismo, un poeta del quotidiano diretto e accessibile, profondamente umano, inconfondibilmente americano ma universale. Un autore che merita il vostro ascolto (e magari, perché no, una lettura ai testi) e che vi ripagherà offrendovi in cambio commozione e divertimento in egual misura.
Ma sì, avendovi “allietati” anche con un parziale track-by-track, credo si possa decretare che la vostra pena è stata scontata.
Ego te absolvo a peccatis tuis.
P.S.: Alla fine, le cose potevano andarvi peggio, non sapete quanto siete fortunati, avreste potuto sbattere contro quell'albero (3)
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