Un momento fa non trovavo nessuna parola adatta per l'inizio di una recensione degna di essere letta da capo a fondo. Troppi pensieri, troppa spossatezza, troppi fastidi. Fortunatamente i sinuosi synth di "Navy Blue", seconda traccia del disco, arrivano giusto in tempo per portarmi in un limbo astratto, una dolce agonia. E sarà forse per il contrasto bianco/nero della marmorea copertina (che purtroppo vedo solo dallo schermo), che mi è venuto in mente "8 e 1/2", uno dei capisaldi del nostro cinema, visto con piacere pochi giorni fa, difficile da dimenticare.
Così, ripercorrendo a mente le scene del capolavoro felliniano mentre la musica scorre languida in sottofondo, trovo queste parole. Sembra quasi un tappabuchi per coprire qualche carenza d'ispirazione, ma è questa la condizione che più sento mia in questo momento, e mi sembra un buon espediente. Ci sono periodi in cui ci si perde nell'infinito gioco ossessivo dell'aut aut, delle scelte, delle prese di posizione, o di quel limbo di cui sopra, schiacciati dalle pressioni delle alternative, dal peso di una libertà che facciamo fatica a sentir nostra. Non so se magari ci siano persone inette e persone intraprendenti, e non so nemmeno se questo sia tipico dell'adolescenza (o post adolescenza); tutti, a modo nostro, abbiamo certi momenti, chi li vive in modo più intenso, chi li affronta in modo più pratico. Il problema è quando il magone interiore diventa una lunga fase di stallo in cui la realtà non ci si dispiega mai nella sua varietà. Vittime di occhi appesantiti, credendo di essere (o di poter essere) estranei al mondo, incorruttibili, ma in verità scoinvolti dalle noie, dalle mancanze e dalle angosce quotidiane, la vita ci appare scolorita e monocorde.
Ed è qui che la musica si fa madre di tutte le consolazioni, rompe il tedio prepotentemente; o a volte ci va a amabilmente a braccetto, come nel caso dell' americano, esordito però in Germania, John Roberts e il suo "Glass Eights" (2010). Un disco che di difficile non ha niente, al giorno d'oggi nelle strade affollate dell'elettronica spicca chiunque. Il difficile, quando suonare richede poco o nulla, è avere il guizzo, facile o complesso che sia, qualcosa per cui valga la pena spendere tempo. E almeno per me, questo di tempo ne vale, specie per chi si sente consolato da queste parole.
Sin dal preludio minimalista "Lesser", si percepisce nell'aria qualcosa di piacevole, sicuramente di cinematografico ed estetizzante. Il disco prende da subito una piega deep, con l'incedere rilassato della prima traccia. Ho sempre pensato la deep house (e molti generi affini per "utilizzo", che alla fine hanno molto da spartire per certi versi con il jazz) come un "piacere facile", per la sua soddisfacente immediatezza, è pura sensazione, scevra da concetti, e oltretutto di semplice composizione e altrettanto facile fruizione. Solo sensazione. Ma questa non è la deep di Luomo, quella del suo sublime "Vocalcity", uno degli assi del genere, tuttalpiù quella degli orgasmi notturni dei Motorbass (mostri) più dilatati, o di Moodymann. Ma in questa house, che di ballabile ha poco, c'è qualcosa di malinconico, ma non di una malinconia commovente, è pur sempre qualcosa di piacevole, è quella dolce agonia di cui parlavo, tra il nauseante e l'appagante. Dalla spastica ma pure sempre pacata "Navy Blue" fino alla soffusa "Pruned" (ricorda "La Notte" dei Cassius) e alla tortuosa "Porcelain", lo scenario è quello di una notte fonda più sfocata che mai, in cui i colori sbiadiscono, le insegne si offuscano e si deformano, storditi da una incontrollabile miopia interiore. Solo le "Dedicated", "August" e "Even or Not", ci fanno a tratti riemergere dalle acque stagnanti, con sprazzi di elettronica più marciante e dinamica. E' la title-track (con un mood che non può non far venire in mente "Flying Fingers" dei Motorbass) a chiudere con maniere misurate il disco, come se volesse riappacificare.
In fondo devo dire che mi rifiuto di chiamare la musica una consolazione, non è solo questo e non voglio crederlo, lo sento. E' di più, è un continuo rinnovo attraverso l'arte, che sia il buon Roberts o qualche altro; non è solo una fuga nell'estetica, tranquilizzati dalla forza delle nostre immagini. Ci sentiamo almeno per una volta chiari, distinti, fermi, cullati dalla melodia, l'esistenza diventa paradossalmente immobile, al di là di chissà quale supposta crisi. E forse, al di là del nostro "trastullarci", al di là del nostro immedesimarci in chissà quale personaggio, al di là delle visioni e dei desideri, c'è qualcosa di più, il momento più estremo dell'arte, in cui per assurdo ci si sente per quel che si è, si assapora un equilibrio reale e genuino.
"...Luisa, mi sento come liberato, tutto mi sembra più buono, tutto ha un senso, tutto è vero. Ah, come vorrei sapermi spiegare...ma non so dire. Ecco, tutto ritorna come prima, tutto è di nuovo confuso, ma questa confusione sono io, io come sono non come vorrei essere, e non mi fa più paura. Dire la verità, quello che non so, che cerco, che non ho ancora trovato. Solo così mi sento vivo e posso guardare i tuoi occhi fedeli senza vergogna. E' una festa la vita, viviamola insieme. Non so dirti altro, Luisa, nè a te, nè agli altri. Accettami così come sono se puoi, è l'unico modo per tentare di trovarci."
Guido Anselmi, "8 e 1/2"
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