Rilassatevi, questo non è un altro libro sui Beatles”. Così John Robertson comincia la sua monografia.

Di solito, quando si parla del lavoro di Lennon, ci si concentra sul periodo che va dal 1962 (inizio della produzione discografica con i Beatles) al 1971 (anno della pubblicazione di “Imagine”). Dal 1971 in poi, si smette di parlare della sua arte, e si comincia a parlare delle sue manifestazioni con il basco in testa, oppure di Yoko Ono, della nascita del secondo figlio, della reclusione volontaria, e della morte. Ma, come dice l’autore, “Lennon ha fatto arte per 23 anni (1957 - 1980)”. Questo volume parla, non sempre con la stessa profondità a dire il vero, di tutto il lavoro artistico fatto da John in questi 23 anni.

Alle prime opere (prima del 1962), Robertson, ovviamente, dedica una certa attenzione e che non ha nessun timore di definirle “dilettantesche” o di apprezzarle quando è necessario.

Poi si passa a parlare degli “anni ruggenti” (1962 – 1965), dove vedrete l’enorme mole di lavoro fatta dai Beatles, che farà dire all’autore: “In un’epoca in cui una canzone e un video richiedono mesi di duro lavoro, è difficile capire lo stress a cui i Beatles furono sottoposti in questi due anni”.

Essendo un critico serio, non troverete il disprezzo per la prima produzione (fino a “Help!”), ma neanche la folle celebrazione che si incontra oggi. Leggete con attenzione l’esegesi del testo di “Help!” e la stroncatura di “You Have Got Hide Your Love Away”.

Tra il 1964 e 1965, Lennon pubblicò un paio di libri, che qui vengono analizzati e per i giochi di parole e per i disegni.

Si passa poi a “Rubber Soul“, “il primo vero album dei Beatles”. Molto belle le recensioni dei testi delle canzoni in questo disco, specialmente di “Girl”. Poi arriva “Revolver”. Non potrete non apprezzare la dettagliata analisi del making di “Tomorrow Never Knows”, per me più bella di quella presente nel libro di Ian MacDonald, e non trascurate nemmeno quella di “Rain”, per le innovazioni che portò nelle tecniche di registrazione.

E poi arriva la storia di “Strawberry Fields”: splendida - anche se non condivido affatto il parere dell’autore secondo cui questa canzone sarebbe “una follia narcotica”.

Poi “Pepper”. Questo libro è davvero utile per imparare quello che Lennon disse del disco negli anni 70.

Molto ben fatta l’analisi del viaggio in India, quando John, solo con se stesso, dovette affrontare i suoi demoni – come si vede nell’agghiacciante “Yer Blues”.

Ovviamente, in un libro su Lennon, non si può non parlare di Yoko Ono, e del perché John ne fu così attratto.

Un po’ superficiale la descrizione delle canzoni del White. Solo un aggettivo (“bellissima”) per “Dear Prudence”, e poche righe per “Happiness is a Warm Gun”, che “li costrinse a sudare come una volta, quando ormai non avevano più nulla da dimostrare”.

Il periodo di “Let It Be”, che “meriterebbe un libro, noioso, ma pur sempre un libro”, è trattato di striscio: si vede che Robertson vuole cominciare a parlare subito del Lennon solista.

Invece, è trattato bene il suo periodo dei “bed-in for peace”, dove l’autore dice causticamente: “Senza nessun senso del ridicolo, cominciò a fare il profeta di cose delle quali non gli importava nulla. Lui, con il suo carattere eccessivo, ci si buttò a capofitto”.

Si parlerà anche della famosa intervista a “Rolling Stone” del 1970, quando “vomitò insulti a McCartney in ogni direzione”.

Lascio a voi l’eccellente analisi degli album solisti, ai quali Robertson dedica tante energie.

Si parla anche del famoso weekend del 1973, in cui John aveva deciso di lasciare Yoko Ono, e quasi deciso di tornare con i Beatles, cosa che stava per fare anche nel 1975.

Poi la nascita del secondo figlio e la risurrezione personale.

Infine la morte – avvenuta in un periodo di grande ottimismo, in cui John si sentiva felice ed entusiasta come un ragazzino.

La passione sincera e la competenza dell’autore hanno partorito un libro eccellente, molto denso, talvolta anche troppo. Servivano più pagine e una migliore divisione dei capitoli, per lasciare “respirare” un po’ di più il lettore.

Ve lo consiglio. Anche se non amate Lennon, ma siete solo fan dei Beatles, non ve ne pentirete perché, al di là della gradevolissima lettura, troverete informazioni (sul periodo 1962 - 1970) che non sono presenti nemmeno in Ian MacDonald. Non è capolavoro perfetto, ma comunque è un capolavoro. Vorrei concludere così. Se vogliamo trovare una morale in questo libro, direi che è questa: Lennon, pur essendo un pigro indolente, quando si metteva a lavorare, non era mai un dilettante. Era difficile portarlo in studio, ma, una volta in studio, era difficile portarlo via – come era il suo carattere tutto/niente. Era un “pigrissimo perfezionista”. È per questo che la sua produzione lascia (quasi) sempre un profondo senso di rispetto verso l’autore - che ci sia simpatico o meno. Come dice Robertson: “Quello che ha fatto, pur nella disparità dei risultati, non lo ha mai fatto svogliatamente”.

Carico i commenti...  con calma