“E i bambini affetti da pellagra devono morire perché da un’arancia non si riesce a ricavare profitto. [..] Gli affamati arrivano on le reticelle per ripescare le patate buttate nel fiume, ma le guardie li ricacciano indietro; arrivano on i catorci sferraglianti per raccattare le arance al macero, ma le ritrovano zuppe di kerosene. Allora restano immobili a guardare le patate trascinate dalla corrente, ad ascoltare gli strilli dei maiali sgozzati nei fossi e ricoperti di calce viva, a guardare le montagne di arance che si sciolgono in una poltiglia putrida; e nei loro occhi cresce il furore. Nell’anima degli affamati i semi del furore sono diventati acini, e gli acini grappoli ormai pronti per la vendemmia”.

Il cuore di quello che viene considerato il capolavoro di John Steinbeck è condensato in questo estratto. “Furore” è un romanzo di denuncia sociale contro la condizione in cui versavano le campagne nel periodo della grande depressione, contro la logica del vile denaro che calpesta i diritti dei più deboli, contro la discriminazione, contro il potere delle banche. Un senso di impotenza e abbandono permane in tutto il romanzo, la misera condizione dell’uomo in lotta per la sopravvivenza, la flebile speranza di risorgere, l’amara verità della costante sconfitta.

Il romanzo narra le vicende della famiglia Joad, sfrattati dalla loro casa e dalla loro terra natia in Okhlaoma e costretti al pellegrinaggio verso la California alla disperata ricerca di un lavoro. In questa migrazione quasi biblica la loro storia si intreccia con quella di altre famiglie anch’esse in spostamento verso l’Ovest, uno sciame di carovane in direzione della terra promessa, dove c’è il sole tutto l’anno ed il lavoro nei frutteti e nelle piantagioni di cotone abbonda. All’arrivo in California, però, la situazione è completamente diversa, migliaia di persone pur di lavorare sono disposte a svendersi per un salario irrisorio, i migranti vengono visti dalla popolazione locale come appestati e così vengono stipati in vere e proprie baraccopoli. La famiglia Joad si trova ad affrontare una disgrazia dopo l’altra, come la morte dei nonni, come due alberi estirpati dalle proprie radici, la perdita di alcuni membri della famiglia che scelgono strade diverse, la morte prematura di un neonato. In questo caos, aggravato dalla mancanza di una casa e di un lavoro, le figura che sovrasta tutti è quella della mamma, che con le sue grandi braccia ha la forza di tenere unita la famiglia, accollandosi il ruolo di capo-famiglia. La vicenda dalla famiglia Joad ci insegna che la storia si ripete, con personaggi e trame diverse, ma la logica del potere e del “dio” denaro sembrano essere ancora le uniche forze che muovono il mondo “moderno”, in cui l’unica condizione umana possibile sembra essere quella della sofferenza.

Steinbeck ci ha regalato una pietra miliare da leggere oggi e tramandare ai posteri. Accanto alla condizione dell’uomo si staglia la magnificenza del paesaggio naturale e urbano, terre rosse arse dal sole, distese di campi di cotone interrotti qua e là da casolari abbandonati, cieli notturni neri come il petrolio illuminati da stelle luccicanti, rimesse d’auto che puzzano di benzina e ferraglia, asfalti roventi che bruciano piedi e penumatici.

Il realismo di questo romanzo è straziante, la drammaticità di alcune sequenze divora il lettore, ma se si vuole comprendere l’America e gli americani è necessario leggere Steinbeck.

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