Avrei voluto cominciare questa recensione con una bella tirata sul livello basso (ma basso basso) nel quale sta scadendo ultimamente il caro vecchio DeBaser, ma sarebbe stato come sputare nel piatto in cui mangio: "verissimo, ma il piatto è mio e ci faccio quel che mi pare!", avrebbe detto Paolo Rossi. Solo che io non sono Paolo Rossi, quindi mi limito a stupirmi del fatto che non ci sia nulla su John Vanderslice su DeBaser e vi invito a perdere meno tempo coi cazzeggiamenti che sanno tanto di inconcludente sparare sulla Croce Rossa...

C'è questo biondo indie-rocker americano che è fuori da circa 10 anni sfornando dischi di una perfezione micidiale, nei quali ogni singola nota è sistemata a dovere, coi suoi suoni levigati, ma non laccati, scuri, inquieti, dannatamente rock. Non è il classico "uagliunciello" con t-shirt e sorriso da scanzonato sul viso. Ride poco, direi. Non strilla, non arruffa i suoni. Bada parecchio al sodo. Quando la sua mano gentile si posa sulla mia testa non posso che scodinzolare come un cane, per poi ritrovarmi in mezzo ai flutti di una "The Parade" tra le cui pieghe di un inciso sentirete chiaramente echi di "Imagine" di John Lennon. Ora potrebbe sembrare azzardato, ma di talento qua ce n'è a bizzeffe, quindi il paragone non sfigura.

Ultimo parto di una carriera che ha visto tanto plauso di critica (soprattutto col precedente "Pixel Revolt" del 2005), questo "Emerald City" ha forse perso in cerebralità e spinto molto più sull'acceleratore della fruibilità, che per un artista di questo calibro non vuol dire che vi metterete a fischiettare una sua melodia (cosa comunque probabile), ma che tutte le vostre sinapsi non riusciranno a restare inattive seguengo la sua musica. Nove lunghi brani - 4 minuti in media - mettono in chiaro che ci vuole il tempo necessario per esprimersi, per fortuna rifuggendo totalmente la prolissità. Le sonorità privilegiano le note basse ed i toni minori, ed in tal cifra stilistica cercano di essere più varie possibile: con un'impronta prettamente chitarristica, ci si muove dall'acustico all'elettrico, passando per l'elettronico, dalle atmosfere notturne e claustrofobiche (quasi trip hop) di "Tablespoon Of Codeine" al ballatone psyco-folk "Kookaburra", che con la ritmata "Time To Go" è un deciso uno-due d'apertura. Il pianoforte che cade come polvere magica nella già citata "The Parade", cede il passo al flusso elettrico di "White Dove", con un inquieto testo che trasuda dolore. Si susseguono poi episodi un pelino sotto la media (molto alta) di questo quintetto d'apertura, per finire con le oniriche note di piano di "Central Booking", col suo incedere lento che poi diviene maestoso.
In tutto questo fluire di buona musica si sente molto presente la personalità ben definita dell'autore, che depone ulteriormente a suo favore: incasellando questo lavoro nella sua discografia, lo si sente perfettamente in linea e coerente con un percorso di maturazione che è praticamente giunto all'apice. Molto belli i testi, in bilico tra riflessione escatologica e semplice dipinto dell'inquietudine, insomma se vi è piaciuta Bat For Lashes o il nuovo di Thurstone Moore non fatevi scappare questo gioiellino.

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