"Raccogli un pò di quello che siamo riusciti a seminare ... lascia gli anni perduti in una scatola di vecchie lettere … il caos dell'ignoto è andato : so turn around and go home."
Non è uno “sforzo inutile” ascoltare l'ottavo album del “Buon” John Wesley (ex Porcupine Tree) "A way you’ll never be" è decisamente il suo migliore, indubbiamente il suo più autentico e maturo in ogni aspetto. Se in passato il suo mix Rock – Blues melodico aveva tradito non poche pecche nella struttura dei pezzi, troppo spesso piatti e ripetitivi, segnati da refrain anche stucchevoli con disomogeneità rilevanti nel sound globale e testi davvero basici, qua la storia è totalmente diversa. Sin dalle prime note di “By The Light of a Sun” si percepisce nella sua stupenda essenzialità, la massiccia imponente impalcatura sonora messa in scena: chitarre (sparate a volumi siderali), basso e batteria… la scelta di mettere in campo tutto quel che lo rappresenta in termini di stile e gusto , superficialmente potrebbe sembrare un limite, qualora si consideri quest’opera come un album di genere; in ultima analisi rappresenta il suo più grande pregio, qualcosa che compatta tremendamente i 10 pezzi del disco in un blocco organico coeso ma tutt’altro che ripetitivo. L’idea alla base è l’identità, disseminata in ogni traccia del disco – in ogni ossimoro più o meno evidente (vedi titolo stesso) – in un percorso concettuale ben delineato da musica e parole, con l’ombra costante di un imperfetto ripetuto, tributo di rimpianti non sciolti, la condizione umana intasata da ogni genere di paura, indecisione, insicurezza … La sveglia di John è una Terapia d’urto stile “Attacco Solare Elettrico”, nell’essenzialità del suo linguaggio chitarristico in primis, incendiari Riff ( vedi “by the light of a sun”, “A way you’ll never be” , “The Revolutionist”) e soli che piovono dall’alto, deformandosi in ogni tonalità per arrivare a sfiorare quell’essenza più intima che “corre più veloce della luce” … La lezione dei Porcospini ha dato i suoi frutti con un song writing più vario e meno prevedibile, che riesce con ritrovata spontaneità a cambiare registro senza ingolfarsi, così si passa dal granito al velluto ma senza i troppi orpelli sonori con cui ad es. Steven Wilson è sovente condire i suoi pezzi … Wesley descrivendo questo lavoro, parla di temi musicali anni 70 , caratterizzati dalla “Grande Chitarra” attualizzati con i suoni di oggi, in effetti il disco non suona affatto datato, con un’espressività ai massimi livelli nei vari “solo” (a tratti epico orgasmici) disseminati nell’album ed un uso sapiente dei registri vocali (mai ridondanti) riesce a equilibrare il massiccio impiego di distorsioni e dissonanze psichedeliche.
Da apprezzare il lavoro della sezione ritmica con un Mark Prator alla batteria e percussioni in dirompente stato di grazia e Sean Malone al basso essenziale ma mai banale (vedi in “Nada”) che inibiscono qualsiasi possibile calo di tensione … forse soltanto in “The Silence in coffè” ci si ferma un attimo, con la malinconia del passato e qualche piccolo rimorso su ciò che forse si sarebbe potuto fare di più… ma la pausa è brevissima e il finale del disco è ancora più inteso .
Perchè se l’odierno resta incerto e insicuro, dobbiamo comunque andare avanti ... quando pure un pendolare di mezza età che vive la sua “normale” sfida quotidiana, appare come un rivoluzionario, beh forse allora arriviamo a capire che i grandi slogan, le verità assolute, i cambiamenti professati – le grandi guerre di principio, forse sono solo “Inutili Sforzi” ( “Pointless Endeavors”) , la più grande rivoluzione è accettarsi per quello che siamo, nel bene e nel male, impegnarci al meglio nella vita che abbiamo creato e non crucciarsi troppo per certi irrisolvibili problemi che in realtà sono solo delle costanti nella nostra mente e che quindi, come lo Zen più classico insegna, in ultima analisi non sono da considerare reali problemi .
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