Parziale ritorno alla origini per il regista cinese John Woo. Dopo 15 anni a Hollywood, periodo in cui ha cercato di portare l’impronta stilistica iperadrenalinica del suo cinema negli States, torna in patria e gira il colossal cinese più costoso di tutti i tempi. La battaglia dei tre regni, arrivato nei cinema italiani a fine ottobre in versione ridotta rispetto alla versione per il mercato asiatico, si basa sui fatti reali accaduti durante la battaglia di Chibi, anno 208 dopo Cristo.

Dall’esperienza americana Woo riporta la perfezione formale delle immagini che ha acquisito a Hollywood firmando pellicole di consumo, ma sempre particolari, come “Face/Off - Due facce di un assassino”, “Mission: Impossible II” e “Broken Arrows”. Dalla produzione realizzata ad Honk Kong negli anni ’80 prende un certo gusto per lo splatter, o comunque per una rappresentazione sanguinolenta degli scontri, e l’immancabile uso del ralenty e degli zoom (che deve tantissimo al cinema di Jess Franco).

Alla fine confeziona un film di difficilissima collocazione in occidente eppure affascinante. Superata l’iniziale difficoltà a comprendere i personaggi, e certi momenti affrettati nonostante le due ore e mezza di durata (si tenga presente che l’originale dura 4 ore e 20), si entra in un mondo affascinante fatto di violenza e ritualità, di tradizioni e di spietati strateghi, di armi bianche e di raffinate tattiche di battaglia (il “cattivo” Cao Cao scopre la guerra batteriologica con l’invio di cadaveri morti di peste sulle rive dove campeggia il nemico).

I vecchi fan di Woo non faticheranno a riconoscere la mano del regista del periodo indipendente. Nonostante sia un colossal il film porta in se i segni del cinema del cinese del periodo pre Hollywood, quello di capolavori off come “The Killer” o “Hard Boiled”, da cui torna un attore feticcio del periodo hongkonghese: Tony Leung.

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