I veri geni esistono, eccome.
Senza andare a scomodare le personalità dell'entourage post-romantico di inizio Ottocento, vere fautrici delle fondamenta basaltiche su cui posa la musica tutta, si può tranquillamente affermare che il personaggio cinquantacinquenne che risponde al nome di John Zorn sia, tutt'oggi, il più grande compositore mai esistito nel XX° secolo, pari, se non addirittura superiore, a nomi del calibro di Miles Davis, John Coltrane, Captain Beefheart. Oltre all'immancabile, baffuto greco-siculo.
Non vi tedierò su quanto mi piaccia Zorn, non enumererò uno per uno i suoi trecento e passa album (e vorrei ben sperare che...), non vi elencherò lo zibaldone infinito di generi da lui trattati, esplorati, distrutti, ricostruiti e fusi, non mi dilungherò nell'elogiare i suoi infiniti progetti paralleli (Naked City, Painkiller e Masada su tutti, oltre alle recenti, splendide collaborazioni con Mike Patton, da cui è sorta un'imperdibile trilogia con i capolavori "Moonchild: Songs Without Words" del 2006 e "Six Litanies For Heliogabalus" del 2007). Di queste chiacchiere ne avete ormai piene le tasche.
Quello che molti non sanno o che, addirittura, ignorano, è che il nostro Zorn, quando non è impegnato nell'incisione di uno dei suoi venticinquemila dischi annuali, oppure non si destreggia a formare nuovi supergruppi, o ancora non è a capo della Tzadik -personalissima nonché interessantissima etichetta personale- e delle rispettive, numerosissime uscite, si diverte a scrivere delle soundtracks destinate a musicare delle pellicole cinematografiche di estremo sottobosco, come piccole commedie, documentari, biografie e via dicendo. Questo ulteriore filone produttivo (denominato "FilmWork") continua ormai da più di dieci anni e può vantare una serie di diciotto volumi, ricchissimi di citazioni e davvero incredibili per qualità compositiva e varietà stilistica. Dal punk motorizzato, sghembo e fumettato del volume 7, "Cynical Hysterie Hour", al lounge dell'ultimo "The Treatment", al klezmer di "1997" (ma si potrebbe continuare ancora per molto), i FilmWorks sono diventati a tutti gli effetti degli appuntamenti imperdibili per gli amanti dell'avanguardia e della contaminazione musicale, oltre che per i fan del sassofonista americano e per i neofiti del soggetto in questione.
Nel 2001, in occasione di un documentario della regista austriaca Martina Kudlácek sulla figura storica della grande regista Maya Deren, intitolato per l'appunto "In The Mirror Of Maya Deren", è lo stesso Zorn ad incaricarsi di offrire alla pellicola un contorno musicale il più consono possibile. Abbandonato temporaneamente il sax, in favore di un più funzionale pianoforte, il Nostro si circonda ancora una volta di ospiti illustri (Erik Friedlander al violoncello, l'immancabile Cyro Baptista alle percussioni, Jamie Saft come accompagnamento pianistico e ritmico, nonché primo organo), per dare luogo a dieci temi differenti, sviluppati in quindici tracce diverse. Il risultato? Eccezionale è dir poco.
John Zorn e compagnia musicante, questa volta, scelgono per il flusso sonoro un'impostazione assolutamente neoclassica, solo a tratti vagamente jazzata, il più delle volte ispirata alla musica da camera, con riferimenti minimalisti. Musica, insomma, più d'atmosfera che non d'altro, ma che può vantare un apporto strumentale eccezionale: Zorn dimostra di sapersi giostrare benissimo anche con lo strumento a corde (da sentirsi il tema di "Drifting", ripreso per tre volte in tre varianti diverse, ognuna più possente dell'altra, dove il compositore sembra posseduto dall'anima di Wim Menders), e gli intarsi rococò che si creano con l'organetto sono davvero bellissimi all'ascolto. A tal proposito, segnalo la meravigliosa "Dancing", che mischia singulti etnici con saliscendi ambient, con musica pseudo-sacra, con classicismi rielaborati e centrifugati in salsa nipponica.
Non sono però questi i fulcri dell'album, se di veri apici si può parlare: già "Teiji's Time" ingrana una marcia diametralmente opposta a quanto sentito finora, con deliri elettro-tribali che svolazzano da una parte e dall'altra e catturano un non-so-che di rituale nell'aria; oppure una stesura per solo pianoforte e maracas di "Dancing", chiamata "Filming", in cui un nucleo neoclassico subisce delle oscillazioni pendolari, come soggetto ad un continuo, sonnolento rollio. Già più cerebrali pezzi come "Nightscape", un ipnotizzante, spezzettato andirivieni di mellotron e xilofono, con disturbi percussionistici sul fondo, o "Voundoun", un vero e proprio sabba attorno ad un indistinto focolare, che sublima le ritmiche recondite dell'Africa più nera in una ricerca di cadenze distorte quasi ossessiva. Interessante anche la più canonica "Kiev", qui proposta in versioni per piano, clavicembalo, basso e batteria e solo clavicembalo. Un minimalismo che affiora e scompare, come nei flutti di una vastissima tormenta oceanica, che non trova pace. Un bellissimo acquerello in bianco e nero di una banlieue parigina, fra gioie e dolori.
Ma, sebbene il pathos emozionale respirato sino a questo punto fosse stato sicuramente dei migliori, per idealizzare veramente ciò che trasmette questo incantevole lavoro bisogna prestare una maggiore attenzione ai due temi in cui il violoncello diviene una colonna portante, ovvero "Mirror Worlds" e "Nostal Gia". La prima, con le sue meravigliose aperture sinfoniche che sfumano bruscamente in una ganascia di orditi siderurgici non meglio definiti, è certamente l'episodio più disturbante presente in questi cinquanta minuti. Ma è la seconda, vero capolavoro, a sciogliere anche i muscoli cardiaci più titanici, con gli struggenti inserimenti di Friedlander a squarciare abissi divampanti: come se fosse Giulietta ad impugnare l'archetto, e a vomitare la sua disperazione addosso alla salma di Romeo, con tonalità piene e profonde. Presente anche una versione per solo clavicembalo, ancora più delicata, che però perde quel magico cromatismo che avvolgeva la sua perfetta gemella.
In conclusione, grandissimo disco, da avere. Se mai, un giorno, ci chiedessero di ricordare John Zorn con un disco, non sceglieremmo mai questo decimo capitolo dei FilmWorks. Se, però, ci chiedessero di commemorare John Zorn con alcune delle sue opere più importanti, questa entrerebbe sicuramente nel cerchio. Maya Deren, da lassù, sorriderebbe, felice.
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