28 a.Z. (anno Zornico), comunemente detto 2008. Si apre il nuovo ciclo di innumerevoli dischi del nostro prolifico beniamino, il buon vecchio John Zorn, sassofonista, compositore, geniaccio pazzo.
L'anno precedente, nonostante ci avesse messo a disposizione "solo" 3 lavori (a differenza del 2006, che ne contava ben otto), ha lasciato dietro di sé dei punti fermi dell'enorme discografia. "Six Litanies For Heliogabalus", degna conclusione della trilogia iniziata con "Moonchild" e "Astronome", è diventato il nuovo culto zorniano come mai sin dai tempi di "Naked City"; un vero gioiello di incisività, un sano faccia a faccia col Diavolo in persona. In secondo luogo, anche se passato più in sordina, ho trovato "From Silence To Sorcery" un ulteriore gioiello, soprattutto per quanto riguarda la prima parte (Goetia, un brano diviso in 8 parti per solo violino - semplicemente folle). Pochi ma buoni, si suol dire.
Dopo questo preambolo, vi rimando dunque all'apertura del 2008 di Zorn, ovvero un nuovo Filmwork, per la precisione il XIX (a distanza di 2 anni dal XVIII). Un disco che, rispetto ad altri, si presenta molto più essenziale, senza sperimentazioni o eccessive stranezze. "The Rain Horse", ennesimo film di nicchia di cui solo John può trovare il giusto sonoro.
Davvero semplice: basso, violoncello e piano. Nessuno sbalzo di tono, melodie orecchiabili, delicate. Un momento quasi rilassante, che va vicino ad atmosfere leggere simili a "The Gift" (2001). Lontano anni luce dallo Zorn fracassone e "pattoniano", un disco che scivola via senza problemi, accompagnato da un violoncello azzeccatissimo, un pianoforte mesto e un po' jazzistico, un basso quasi inudibile.
Niente male, come inizio.
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